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L’INVENZIONE DANTESCA DEL PURGATORIO E PIETRO D’ABANO Introduzione
Il pensiero di chi, a secoli di distanza, pensa ai regni dell’oltretomba, naturalmente passa dall’uno all’altro. Riesce con difficoltà ad intuire la complessa grandiosità della costruzione dantesca. Non solo quella di natura poetica: l’atmosfera sentimentale, la suggestiva musicalità dei toni, le figure storiche e le invenzioni dantesche. Ma anche quella religiosa per una creazione che rappresenta la sintesi del pensiero cristiano sulla condizione delle anime dopo la morte, in attesa della gloria di Dio. Se infatti l’Inferno e il Paradiso, tranne rare eccezioni, non sono luoghi su cui si fa acceso il dibattito dentro la Chiesa, il concetto teologico di Purgatorio ha una storia lunga, talora carsica, sicuramente complessa dalle origini sino al secolo XIII. Nei primi secoli cristiani, iscrizioni catacombali, memento funerari, atti di martiri testimoniano la pratica del suffragio per i defunti. I morti si trovano in una condizione di sonno, in attesa della resurrezione alla venuta di Cristo e sono uniti ai vivi dalla comunione orante. Con i padri del IV secolo, chiamati “misericordiosi”, si comincia a fare una distinzione: l’eterno fuoco vendicatore è riservato agli empi, nel fuoco purificatore invece soffrono quanti devono dissolvere dall’anima qualsiasi traccia di vizio. Ai vivi è data la possibilità di pregare Dio, affinché doni sollievo agli spiriti dolenti, in attesa del giudizio finale. La svolta teologica tra IV e V secolo viene compiuta da Agostino di Ippona che elimina il periodo di attesa tra la morte personale e il giudizio universale. Dopo la morte il defunto entra nella felicità eterna del Regno di Dio oppure precipita nella perdizione senza fine dell’Inferno, perché con la fine della vita viene fissata per sempre la sorte di ognuno. In questa alternativa il focus purgatorius rappresenta il mezzo di purificazione per coloro che, pur macchiati da alcuni vizi, hanno scelto Dio piuttosto che la Terra. Fuoco inteso come dolore fisico oppure come metafora della perdita dei beni terreni. Insomma Agostino propone una concezione individuale della salvezza, quasi avulsa dai grandi eventi finali con i quali Dio metterà fine alla storia universale, e modifica la prospettiva dell’espiazione. Non si tratta di un pentimento, di un affinamento interiore, ma della qualità e della quantità oggettiva della pena che l’anima dovrà scontare. Nel periodo successivo il processo di definizione sistematica dei temi, rimasti ancora sul terreno dell’ambiguità, conduce a Tommaso d’Aquino, le cui posizioni diventano largamente diffuse nella Chiesa. Egli distingue nettamente la colpa dalla pena. La colpa si estingue con un atto di contrizione perfetta nel momento della morte, perché l’anima di chi muore non è più in grado di pentirsi o di ottenere meriti. Può solo espiare la pena che viene scontata attraverso la sofferenza ultraterrena, unica in grado di colmare la misura del reato. Se in questo modo viene a formarsi il concetto di Purgatorio come terzo luogo in cui sono poste le anime che devono purificarsi, rimane da definirne la collocazione spazio-temporale. Non c’è dubbio infatti che tra i regni dell’oltretomba, sia l’unico ad essere situato nel tempo, nel tempo che intercorre tra la morte fisica ed il giudizio finale. Quanto allo spazio, le ipotesi sono le più diverse, talune anche fantasiose. C’è chi parla del centro della terra vicino all’Inferno, chi di una posizione mediana tra i due regni eterni. Al di là delle teorie sulla ubicazione delle fiamme purificatorie, è interessante notare che a partire dal XIII secolo cominciano gli interventi del magistero della Chiesa che sul tema si pronuncia non solo per motivi dottrinari, ma anche per ragioni politiche. I turchi, che hanno occupato gran parte dell’impero bizantino, minacciano ora la stessa Costantinopoli e l’imperatore, sperando nell’aiuto dei regni cristiani d’occidente, tenta un avvicinamento a Roma. Qui emergono alcune controversie dottrinarie tra le quali anche quelle relative alla dottrina del Purgatorio. Per sanare tali contrasti viene indetto il secondo Concilio di Lione nel 1274 che trova un compromesso, accettato tra le parti. Il suo testo è contenuto nella lettera inviata da Innocenzo IV a Michele Paleologo che lo accetta, mediante una professione di fede. La sistematica definizione, sia dal punto di vista teologico che magisteriale, del Purgatorio avviene all’interno della profonda mutazione sociale e culturale che caratterizza la storia di quel periodo. L’aumento demografico, il processo di urbanizzazione, lo sviluppo dell’economia mercantile e la formazione della borghesia, come classe intermedia tra nobiltà e servaggio, producono effetti anche in campo religioso. Sono ormai lontani i tempi della spiritualità monastica, della fuga mundi, del disprezzo per il corpo. L’epoca che si apre mostra un nuovo, crescente attaccamento ai valori terreni nei quali anche la spiritualità si riflette. Non si tratta più quindi di scegliere tra il cielo e la terra: si deve poter essere degni del cielo anche godendo appieno della terra. “Il XII secolo è il secolo gaio in cui la civiltà occidentale esplode con una vitalità, un’energia, una volontà di rinnovamento stupefacenti”. Questo è anche il tempo in cui si afferma l’individuo, la sua volontà di realizzare sé stesso sulla base delle proprie capacità e pure la religione, non rinunciando ad essere forma di appartenenza collettiva, prospetta al fedele un proprio percorso personale. Al fedele dei primi secoli, dopo il battesimo, veniva richiesta la purezza assoluta in attesa del giudizio universale. Ora, mediante il lungo percorso compiuto dalla Chiesa, si consolida l’idea di potersi purificare dai peccati in maniera continua, attraverso la confessione e la penitenza individuali. Il Purgatorio diventa così corollario della terra prolungando, oltre la morte, la vita spirituale dell’anima, tesa non al giudizio universale, ma alla propria sorte personale. Nella predicazione, nei testamenti, nella letteratura in lingua volgare, ovunque passa l’idea del fuoco che consente di mondare i peccati commessi. Sino a giungere al primo Giubileo del 1300, quando papa Bonifacio VIII concede ai pellegrini, che giungono a Roma o sono morti lungo il percorso, la remissione dei peccati e l’indulgenza plenaria per le anime del Purgatorio. Il Purgatorio, che nelle definizioni teologiche e nella religiosità popolare è diventato concetto e sentimento comune, è però del tutto privo di immagini. Manca una visione, una narrazione del terzo luogo che sia parte integrante dell’immaginario collettivo. È questo il compito che Dante si assume quando decide di narrare in forma poetica il suo viaggio nell’oltretomba cristiano. Il poeta costruisce il Purgatorio con una struttura materiale ed escatologica del tutto diversa da quella dell’Inferno. La teologia più autorevole indica come spazio di espiazione un luogo sotterraneo, così come Virgilio nell’Eneide. Dante invece decide di collocare il secondo regno all’aperto per marcarne l’opposizione con l’imbuto infernale. Immagina un’isola solitaria in mezzo all’inaccessibile Oceano che ricopre l’emisfero australe del globo terrestre. Una montagna, alta più di ogni monte della terra abitata, si innalza con la sua forma conica sull’isola. Sulla sommità un pianoro e alla base tutt’intorno una spiaggia su cui si infrangono le onde del mare. L’isola monte è collocata agli antipodi di Gerusalemme che occupa il centro delle terre emerse, mentre alla sommità della montagna vi è una pianura amena e boscosa ove si trova il Paradiso Terrestre. Sette enormi gradini ne cingono i fianchi, su di essi stanno quanti devono purificarsi dalle inclinazioni ai sette vizi capitali. L’ideazione e l’ubicazione del luogo della purificazione risponde ad alcune premesse teologiche. Prima tra tutte la temporalità. Il protagonista nell’orrido percorso infernale è stato immerso nell’oscurità della pena eterna nella quale sono reificati peccati e peccatori. La luce gloriosa di Dio in cui vivono i beati avrà colorazioni ed intensità diverse, ma non muterà nel tempo, poiché l’Eterno esiste al di là del divenire. Ma il Purgatorio deve avere una struttura temporale. Infatti le anime percorrendo le cornici del monte, si liberano progressivamente dagli impulsi peccaminosi e, salendo di balza in balza, diventano degne di salire in Paradiso. Così l’uscita dal buio d’Inferno avviene all’alba di un nuovo giorno e il sole, salendo e scendendo nel cielo, accompagna l’ascesa del penitente e della sua guida. Al calar delle tenebre poi i due devono interrompere il loro cammino per riprenderlo al sorgere del sole. Con il tempo è tornata nella luce del giorno la speranza che è l’atteggiamento di chi, pur immerso nel dolore, sa che la sua sofferenza avrà un termine. Questa è la condizione delle anime purganti che soffrono e anelano a quel Dio che ora non possono vedere. Condizione umana di cui non godono i dannati e nemmeno, per opposta ragione, i beati. L’altra dimensione recuperata da Dante è quella spaziale, o, per meglio dire quella del paesaggio terrestre. Ha lasciato dietro a sé la ferrigna geometria dell’Inferno. Lo attende lo sforzo per dare immagini all’esperienza del Paradiso. Ma ora può allungare lo sguardo su quanto di più vicino alla sua esperienza vi sia. Nella salita del monte, ora aspra ora lieve, il poeta proietta il paesaggio che egli conosce per aver percorso l’Italia in cerca di rifugio e protezione. Così proietta la sua memoria personale, il suo passato, la vita giovanile, ricca di propositi, esposta agli errori, ferma nelle certezze. Ricordi di amici, di tenzoni letterarie, di persone con le quali ha vissuto in un tempo che la nostalgia addolcisce, sino all’incontro supremo con Beatrice nel Paradiso Terrestre. Infine occorre riflettere sul significato del percorso montano immaginato dal poeta: l’ascensione come ascesi, la salita come esercizio interiore per liberare il cuore e la mente dalle inclinazioni terrene. Perché, a differenza dell’Inferno, il secondo regno non è costituito solo da una sequenza di scene, di incontri diretti o indiretti con le anime e degli opposti sentimenti che queste esperienze suscitano. Il Purgatorio è un cammino di purificazione per le anime dolenti e soprattutto per Dante che deve fare i conti con il suo passato e purificare la propria vita. Per questo, al contrario di quel che avviene a chi arrampichi, le asperità maggiori si trovano sulle prime balze, poi man mano che si procede il cammino si fa più agevole. Si tratta dell’ennesima prova che il monte della purificazione è ideato dal poeta come un sistema allegorico dove le figure hanno la funzione di nutrire l’immaginazione e, nel medesimo tempo, di fornire – mediante il simbolo – un insegnamento morale al lettore. Per rendere efficace il suo messaggio Dante perciò utilizza una visione della terra del tutto sorpassata, con le terre emerse racchiuse nell’emisfero boreale e le colonne d’Ercole a fare da limite estremo della geografia umana. Lo fa in un’epoca nella quale le navi erano già uscite dal Mediterraneo e lungo le vie d’Oriente missionari e mercanti erano giunti oltre l’equatore. I loro racconti fanno il giro delle città europee e diventano motivo di discussione per gli studiosi: filosofi, astronomi, geografi. Eppure il poeta di tutto questo sembra non fare menzione. Poco tempo prima che Alighieri inizi il suo poema, nel 1303 il medico, astronomo e filosofo Pietro d’Abano redige il Conciliator che pubblica nel 1306. In quel testo, oltre a molte altre tematiche, affronta nella differentia 67 la quaestio: è possibile che gli uomini vivano agli antipodi? La risposta emerge nel testo dal confronto tra le tesi opposte di chi argomenta per il no e chi, sulla base di una serie di prove e testimonianze, sostiene il sì. Nel Purgatorio non vi è traccia però di questo, come di altri dibattiti. Eppure Dante, collocando l’isola monte in uno spazio reale, non può ignorare quanto sta emergendo nella cultura contemporanea. Se decide di ignorarlo, è perché esiste in lui una consapevolezza più profonda che cercheremo di far emergere attraverso l’analisi dei canti che costituiscono l’asse concettuale della Cantica: il primo, il sedicesimo e il canto finale. In tal modo, lungo questo percorso apparirà sullo sfondo la figura di un pensatore al quale è difficile riandare, perché ha avuto la triste ventura di essere considerato, dopo la morte, uno stregone e un negromante condannato dalla Chiesa: Pietro d’Abano. Purgatorio, canto I; Dante e Virgilio sono sull’isola al centro dell’Oceano, dove si erge maestoso il monte di cui non si scorge la sommità. Sulla sua spiaggia incantevole Dante si risveglia dall’incubo infernale. Zefiro, come brezza leggera, attraversa il cielo limpido sino all’orizzonte. Nella luce lattiginosa dell’alba risplende Venere e gli occhi con il cuore si riconfortano, dopo le orride esperienze del peccato. Quattro stelle, che non si possono vedere dall’emisfero boreale, abbelliscono il cielo che va lentamente schiarendosi. Di fronte ad esse appare d’improvviso solitario un vecchio, i capelli lunghi e canuti e un atteggiamento distaccato e autorevole. Il suo volto, illuminato dalla luce delle stelle, sembra risplendere come avesse il sole davanti. “Chi siete voi che state fuggendo dalla prigione eterna?” – li interpella il vegliardo – “Chi vi ha guidati fuori dalla valle infernale? Non valgono più le leggi dell’abisso? Oppure in cielo s’è mutato il volere eterno, tanto che pur essendo dannati siete giunti al mio monte?” Virgilio, che è rimasto sinora fuori scena, interviene. Induce Dante, per cenni e strattoni, a mostrare un atteggiamento deferente e risponde puntualmente alle domande. Dichiara di essere dei due la guida che ha condotto entrambi fuori dell’Inferno, non per iniziativa propria, ma per un mandato divino. Poi, per spiegare la straordinaria missione che gli è toccata, rivela che il suo compagno non è un dannato, ma che per la sua superbia intellettuale era molto vicino ad esserlo. “Io sono stato mandato per trarlo in salvo e non vi era altra strada che quella in cui mi sono incamminato. Ho mostrato a lui tutte le anime malvagie e ora intendo mostrargli gli spiriti che si stanno purificando sotto la tua custodia. Come io sia riuscito a condurlo sin qui, sarebbe troppo lungo da raccontare. Sappi comunque che un aiuto divino mi ha condotto qui, a vederti e ad ascoltarti. Perciò accogli con benevolenza il suo arrivo: va cercando libertà, come ben sa chi rifiutò la vita per essere libero. Tu lo puoi capire, perché nel suo nome non ti fu amara in Utica la morte.” Dante capisce allora di trovarsi al cospetto di Catone, detto l’Uticense, perché in quella località africana, non lontana da Cartagine, sconfitto dall’esercito di Cesare, si suicidò per non cadere nelle mani del tiranno. Indotto dalla foga della perorazione finale Virgilio usa, a questo punto, come captatio benevolentiae il ricordo di Marzia, la moglie amata da Catone, che si trova nel Limbo. Ma questo argomento non interessa l’Uticense, quanto l’assicurazione che il loro viaggio sia dovuto all’intervento divino. Così li congeda, raccomandandosi che Virgilio lavi il volto di Dante, coperto di sudiciume infernale e che lo cinga ai fianchi con un giunco che cresce sulle rive del mare. Infine, dopo aver indicato loro la strada da prendere per salire il monte del Purgatorio, all’improvviso, com’era comparso, svanisce. Dante, rialzato il capo reverente, segue Virgilio che lo guida lungo il mare e mette in atto le disposizioni di Catone. Dall’erba raccoglie alcune gocce di rugiada e con esse toglie dal volto del poeta la patina che il percorso infernale vi ha depositato. Poi preso un giunco, cinge i fianchi del discepolo, mentre in maniera inattesa un nuovo giunco cresce al posto di quello appena strappato. Sin qui la parafrasi del primo canto del Purgatorio. Ma essa non basta a comprendere il complesso messaggio che il poeta ha voluto lasciarvi. Per poterlo penetrare occorre rifare il medesimo percorso, cercando di decodificare le tracce e gli indizi lasciati lungo il cammino. Catone statuario, grave, solenne assume le sembianze di un antico patriarca. Porta lunga la barba e i capelli in segno di lutto, come racconta Lucano. Conserva dunque la sua personalità storica quale al poeta proviene dalle sue letture, ma la sua portata simbolica, rivelata dalla luce che ne illumina il volto, risulta evidente. Egli rappresenta quella libertà morale che è l’esigenza di Dante pellegrino, perché senza libertà morale, senza il pieno dominio di sé non vi è possibilità di vita e di salvezza. Può apparire contraddittorio che Alighieri collochi il suicida Pier delle Vigne nella selva infernale e Catone, che pure si è tolta la vita, venga posto come custode del Purgatorio. La sua coscienza religiosa non sembra per nulla turbata dal suicidio dell’Uticense. Anzi lo esalta e lo considera quale custode del percorso di salvazione non malgrado il suicidio, ma proprio in virtù di esso. Infatti, come Dante scrive anche in Convivio e Monarchia, Catone non si uccise per motivi personali o egoistici, anche se nobili, ma per dare un grande esempio, per accendere nel mondo l’amore della libertà. Un atto eroico che non può essere compiuto se non si è illuminati dalla luce divina. Dunque Dante, mentre si accinge a salire la montagna del Purgatorio per superare i propri istinti, colloca all’inizio della salita proprio colui che superò, in maniera esemplare, il più forte degli istinti umani, quello di conservazione. Le quattro stelle in questo contesto allegorico rappresentano i cardini di una vita orientata al bene e perciò libera. Esse non sono disposizioni naturali, bensì abitudini ottenute attraverso il costante esercizio su sé stessi, attraverso il lento, faticoso processo di liberazione dall’egoismo, dalla superficialità, dall’impulsività, dall’incostanza. Alla libertà morale si giunge come a un traguardo luminoso mediante un’interiore ascesi che superi quanto di istintivo è avviluppato nella natura umana. Gli interpreti sinora hanno scelto chi il fronte astronomico chi quello simbolico. Se invece di sparare da opposte trincee contro la posizione avversaria, si prendono le due tesi sfregandole tra loro come due pietre focaie, può succedere che ne scaturisca una nuova scintilla interpretativa. Le stelle, se sono intese in senso letterale come reali costellazioni, emanano influssi astrali, determinanti per la vita degli uomini. In questo caso sono l’espressione di quelle virtù infuse ad Adamo ed Eva, prima che il peccato ne mutasse geneticamente la natura. Le luci sante, qualora assumano invece un valore puramente simbolico, sono segnali celesti che, illuminando la libertà morale, indicano il cammino di purificazione che occorre percorrere per giungere alla pienezza della condizione umana. La virtù, da questo versante interpretativo, non sono naturalmente infuse, ma il risultato di un lento, faticoso esercizio di controllo degli istinti e di affinamento interiore. Le due posizioni non sono alternative se si pensa al luogo in cui avviene la loro contemplazione, ossia al monte del Purgatorio, all’erta montagna della purificazione la cui ascensione permette di giungere al Paradiso terrestre, allo stato primigenio dell’innocenza umana. Perciò in questo spazio dell’anima le virtù rappresentano il processo ascetico e, nel medesimo tempo, il fine verso cui l’affinamento interiore deve tendere. La seconda traccia che Dante inserisce nella narrazione poetica è la follia che lo stava portando alla perdizione dell’anima quando Virgilio, su mandato divino, lo soccorse nella selva oscura. Questa è la condizione propria di chi, accecato dalla superbia intellettuale, ha perduto il senso del limite. Il termine è già stato usato dal poeta nell’Inferno per definire l’ultima impresa di Ulisse. Il folle volo è infatti l’impresa dell’eroe classico che, assetato di canoscenza, decide di superare le colonne d’Ercole, ossia i limiti propri dell’uomo. L’avventura in aperto oceano si conclude con la morte dell’equipaggio e con il naufragio mentale e morale che il superamento dei limiti umani porta con sé. La follia certamente allude ad un momento fondamentale nell’esistenza del poeta, quando approdato alla filosofia, si convince che mediante ragione e solo nella ragione sia possibile per pochi spiriti eletti spiegare la realtà e giungere alla felicità. La felicità mentale è l’esito di una vita guidata dall’intelletto e dalla presunzione che in esso vi sia la risposta ad ogni umana aspirazione. L’ebbrezza intellettuale porta però allo smarrimento della retta via e dei percorsi che consentono di uscire dalla tenebra e dal non senso. Di qui l’intervento provvidenziale di Virgilio, il percorso attraverso la stratificazione eterna del peccato e ora l’attesa di una ascensione purificatoria. Venimmo poi in sul lito diserto che mai non vide navicar sue acque omo, che poscia di tornar sia poscia esperto. Dante e Virgilio si recano verso il litorale di quel mare donde nessun navigante fu in grado di tornare al porto di partenza. Palese in questi versi il riferimento all’impresa di Ulisse e al suo naufragio, dovuto alla pervicace volontà di superare i limiti che sono propri della natura umana. Il poeta e la sua guida sono tornati sui loro passi perché Catone ha prescritto due azioni che prefigurano nel loro insieme una sorta di liturgia battesimale. Virgilio raccoglie della rugiada, ossia dell’acqua che proviene dal cielo, e con essa deterge il viso di Dante ancora ricoperto del sudiciume infernale. Dopo questo lavacro, strappa dalla riva, dove cresce spontaneamente, un giunco con il quale cinge i fianchi di Dante. Il giunco è l’unico arbusto che cresce sulla riva di quel mare, perché si flette alle onde e alla risacca. A simboleggiare la virtù dell’umiltà che non è misconoscimento o sottovalutazione della propria personalità, ma è invece il senso del limite che è l’autentico antidoto alla follia e deve sempre accompagnare la condotta del vero magnanimo. Come si può notare Dante inserisce le sue prime esperienze nel secondo regno in un sistema coerente di simboli, usati per comunicare un complesso insegnamento morale. Perché abbia efficacia bisogna però si tenga lontano da ogni riferimento alle scoperte geografiche, astronomiche e antropologiche che i recenti viaggi verso Oriente hanno consentito. Taluni studiosi anche di recente si sono rammaricati che Alighieri non abbia l’unica fonte medievale da cui poteva avere attinto notizie sull’emisfero australe, ossia Pietro d’Abano, personaggio di assoluto rilievo nel panorama culturale del 1300. Perché dovrebbe farlo, se l’aponense con i suoi scritti smonta i presupposti del sistema simbolico che il poeta ha inventato, minandone la credibilità? Tornando alla differentia 67 nel Conciliator di Pietro d’Abano, si nota come il tema della abitabilità degli antipodi sia affrontato in maniera asimmetrica. Da una parte vi sono gli antichi scienziati e astronomi come Aristotele, Tolomeo, Al Battani che, sulla base di inferenze sillogistiche, concludono che l’emisfero australe non può essere abitato. Gli elementi a favore di questa posizione sono la directio dei raggi solari, la propinquitas della terra al sole e la mora, ossia il permanere costante dell’irraggiamento solare. Chi difende la posizione opposta, come lo stesso Pietro, ricava invece le sue certezze da prove empiriche e da testimonianze attendibili. Tra di esse l’incontro che lo stesso Pietro ha con Marco Polo. Non fidandosi infatti dei resoconti del viaggio in Oriente che circolano in Francia in lingua d’oïl, da Parigi dove si trova nel 1303, decide di venire in Italia per incontrare direttamente il veneziano. Ne ricava una straordinaria opinione tanto da definirlo “omnium quos unquam scitum orbis maior et diligens indagator.” Altra testimonianza è quella derivante dalla dettagliata lettera di frater Johannes Cordellarius che è giunta nelle sue mani dalla regione di Mohabar in India, dai luoghi in cui si trova sepolto il corpo dell’apostolo Tommaso. Benché Pietro non fornisca indicazioni precise su fra Giovanni da Montecorvino, le citazioni dirette della lettera fanno supporre che sia in possesso del testo originario e che lo abbia avuto proprio nei giorni nei quali viene a far visita a Marco Polo. Da queste fonti, ritenute del tutto credibili, corroborate da alcune teorie che provengono dalla tradizione, l’aponense perviene a conclusioni che affondano la navicella dell’ingegno dantesco. La prima è che non risponde all’esperienza che non si possa procedere oltre l’equatore nell’emisfero australe, pena la sopravvivenza di chi cerca di andarvi. È pur vero che alcuni tentativi, come quello dei fratelli Vivaldi, di arrivare all’India bordeggiando l’Africa sono falliti. Ma, attraverso un itinerario diverso, ora vi è la certezza che è possibile arrivare in quelle regioni e che esse sono abitate. Il calore infatti che avrebbe reso inabitabili quei luoghi è mitigato dall’azione venti. La seconda è che oltre la linea dell’equatore vi sono stelle che non si possono vedere dalle latitudini settentrionali, ma che gli abitanti di quei luoghi vedono da moltissimi anni. Di una costellazione in particolare, Pietro su indicazione di Marco Veneziano, traccia persino un disegno. Non si tratta di certo della Stella del Sud, identificata due secoli dopo, ma è la prova delle attente osservazioni compiute dai viaggiatori di allora. Infine nessuno di quanti hanno viaggiato in quelle regioni ha sperimentato o ha avuto notizia dell’esistenza del Paradiso Terrestre che i fideles nostri credono situato in quelle regioni inaccessibili. Un luogo che sarebbe circondato da un muro altissimo e custodito da cherubini con la spada fiammeggiante per impedire che qualcuno possa accedervi, dopo la cacciata di Adamo ed Eva. A tal proposito, Pietro conclude sarcasticamente che quanti continuano a diffondere tali sciocchezze devono essere dotati di un naso di cera (cioè della tendenza a trasformare le cose a proprio piacimento) impiantato direttamente in una mente bacata. Le conclusioni dell’aponense derivano da un percorso induttivo del tutto opposto a quello logico deduttivo della tradizione scolastica. D’altronde di fronte ad osservazioni di testimoni e ai resoconti di viaggiatori che, seppur in modo indiretto, mettono in discussione la visione aristotelico – cristiana del cosmo vi sono due reazioni. Quella della religiosità popolare che le ignora e quella dei maestri del pensiero che per ogni fenomeno difforme individuano una spiegazione ad hoc, in grado di difendere e mantenere l’impianto tradizionale. Dante stesso affronta, seppur lateralmente, l’argomento nella Questio de aqua et terra, nel 1320 con una argomentazione orale che l’anno successivo viene scritta. Il problema che forma l’oggetto della quaestio nasce dalla necessità di conciliare le certezze teoretiche sulla struttura dell’universo con alcuni fenomeni fisici che sembrano contraddirle. Cardine del modello cosmologico è l’identificazione della Terra come centro dell’universo. Intorno al centro si dispongono ordinatamente le sfere degli elementi (terra, acqua, aria, fuoco) che compongono il mondo sublunare. L’acqua perciò dovrebbe ricoprire la terra in maniera uniforme, ma poiché questo non avviene, le domande sono: perché le terre sono emerse e quindi sono abitabili dagli esseri umani? Qual è la causa di questa infrazione delle premesse teoriche? Alighieri non è nemmeno sfiorato dal sospetto che le premesse aristoteliche possano vacillare, ma suo scopo è definire le cause naturali che rendono possibile questa apparente anomalia. La soluzione trovata è nella virtù delle stelle che si trovano nella parte del cielo boreale che sovrasta le terre emerse. Tale virtus elevans agisce, attirando la terra come la calamita attira il ferro e facendola emergere come un rigonfiamento a forma di mezzaluna. Risulta evidente che l’invenzione del Purgatorio si inserisca in tale visione cosmologica per la quale la parte australe del globo è sommersa dall’acqua e sola si eleva in mezzo all’oceano inviolabile la montagna della purificazione. Montagna della purificazione formata da Lucifero che precipitando sulla terra, scava la voragine infernale e produce con il materiale di riporto l’isola monte Purgatorio, canto XV Nel canto XVI i due pellegrini si trovano immersi in un fumo denso e acre che impedisce a Dante non solo di vedere, ma anche di tenere gli occhi aperti. Perciò è costretto ad appoggiarsi alla spalla di Virgilio per non smarrirsi e non sbattere contro ostacoli possibili sul cammino. Nell’aria buia e greve si odono voci che invocano l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Allora il poeta chiede alla sua guida chi siano quegli spiriti che pregano e questi gli risponde che si tratta di coloro che si stanno purificando dall’inclinazione all’ira. Nel loro dialogo interviene una terza voce che ha riconosciuto nelle parole di Dante qualcuno che non appartiene al regno dei morti, ma dei vivi e gli chiede di identificarsi. Incoraggiato da Virgilio, il poeta rivela che egli proviene dall’Inferno e che, salendo il monte del Purgatorio, spera di approdare alla corte celeste. A sua volta, domanda alla voce di palesare la sua identità e di indicare quale sia il percorso per riprendere la salita. L’anima, o meglio la voce, si presenta come Marco Lombardo, uomo di corte che per tutta la vita ha coltivato la discrezione e la saggezza, virtù che ora sono scomparse dal comportamento dei più. Poi soggiunge che per salire il monte basta proseguire diritti. A questo punto, Dante manifesta un dubbio che già lo arrovella da molto tempo: da che cosa dipende la decadenza dei costumi che è propria del mondo contemporaneo? Alcuni infatti sostengono che dipenda dagli influssi astrali, altri invece dalla volontà degli uomini. La voce di Marco, dapprima sospira per la cecità umana, poi spiega come, pur influendo gli astri sulle inclinazioni umane, l’uomo è libero e in grado talvolta di contrastarle. Certo l’essere umano cerca naturalmente il piacere ed ha bisogno di una guida che lo freni e lo sostenga. Nel momento attuale è proprio questo che manca: l’autorità che applichi le leggi e assicuri la corretta vita civile. Purtroppo il papa che dovrebbe avere a cuore la legge divina e la S. Scrittura, non rispetta la divisione dei poteri e si interessa solo dei beni terreni, diventando un pessimo esempio per tutti. Per confermare quanto detto, Marco porta l’esempio della Lombardia, un tempo virtuosa, ora corrotta, ad eccezione di tre vecchi che non vedono l’ora di morire per passare ad una vita migliore. Infine, dopo una domanda oziosa di Dante, notando che il chiarore del sole si intravvede attraverso il fumo, ritorna sui suoi passi per continuare nella sua purificazione Il protagonista del canto, la cui anima è immersa nel fumo della terza cornice, possiede molti tratti in comune con Dante stesso. Il misterioso personaggio è facile agli scatti d’ira, arguto e fine dicitore, alieno allo sfarzo e alla ricchezza mondana, uomo di corte, eppure non servile cortigiano. La corrispondenza tra i tratti caratteriali di Marco Lombardo e Dante ha indotto molti commentatori, che hanno cercato invano prove storiche dell’esistenza di questo personaggio, a concludere che non sia altri che lo schermo dietro cui si cela l’autore. Se questa tesi è fondata, è Dante in persona che argomenta contro il determinismo astrologico e contro la fede che tutto quel che capita si debba ricondurre alle congiunzioni e agli influssi astrali. Lo fa non dimostrando direttamente la propria tesi, ma confutando l’antitesi, mediante un ragionamento per assurdo. Se tutto quel che avviene nella natura e nella storia fosse necessario, non vi sarebbe alcuno spazio per il libero arbitrio e non avrebbe alcun senso premiare le buone azioni e condannare le cattive, poiché le une e le altre sarebbero sottratte alla responsabilità umana. Partendo dalla quaestio XCV della Summa teologica di Tommaso d’Aquino, il poeta sostiene in seguito che certamente l’uomo è influenzato dal movimento dei cieli, ma la sua libertà è posta da Dio stesso nell’anima, al momento della sua creazione. Il lume della mente, infatti, sottrae gli esseri umani ai meccanismi determinanti della natura, anche se l’autonomia della volontà va conquistata con fatica attraverso la contrapposizione agli istinti naturali e agli influssi astrali. La responsabilità umana è dunque la base di ogni morale e il destino eterno di ogni uomo è affidato alla sua personale, libera scelta. Sulla base di questo fondamento etico, Dante - mediante le parole di chi rimane per tutto l’episodio soltanto una voce nel fumo - ricava la necessità dell’Impero e della sua indipendenza dal papato. Se l’impianto dimostrativo del libero arbitrio è tomistico, quello politico risale alla filosofia agostiniana. La debolezza della natura umana, corrotta dal peccato, richiede due guide che Dio ha fornito agli uomini: l’imperatore e la Chiesa, l’uno per l’ordine materiale, l’altra per quello spirituale. I mali della società, dunque, non dipendono dalle stelle, ma dalla assenza dell’autorità imperiale che, mediante la legge, deve guidare l’umanità altrimenti portata a seguire i propri istinti. Purtroppo il suo posto è occupato dall’invadenza del papa che si interessa più dei beni materiali che di quelli spirituali e, con il suo pessimo esempio, trascina con sé quanti invece dovrebbe guidare verso il vero bene, verso Dio. Nei successivi canti XVII e XVIII è Virgilio ad affrontare e affondare un’altra forma di determinismo, quello psicologico. Dante ricorre alla figura di Virgilio e all’insegnamento della ragione, perché in questi passi della Commedia sottopone a critica radicale il concetto che sta alla base della poesia dei rimatori italiani del Duecento ed a fondamento della stessa poesia stilnovistica, quello dell’amore come signore cui è vano resistere. La riflessione sulla natura dell’amore manifesta la conversione di Dante che dal determinismo psicologico giovanile passa ad una diversa visione dell’uomo, della poesia e della donna amata. Infatti il poeta nel canto XXIV ridefinisce la poesia dello stil novo, nel XXVIII attraverso la figura di Matelda recupera la sua esperienza giovanile, infine nei canti XXX-XXXI canta Beatrice come donna stilnovistica e creatura celeste insieme Le ampie argomentazioni contro il determinismo e la definizione dell’ordinamento morale – architettonico del Purgatorio occupano il centro della Cantica. Non per caso. Infatti nel primo canto, attraverso la figura simbolica di Catone, Dante ha indicato in che cosa consista la libertà e come la si possa moralmente conquistare. Ora, giunto nel mezzo del cammino di purificazione, si pone la domanda radicale: la libertà umana esiste o è soltanto un’illusione ottica? Perché se la libertà umana esiste, esiste la possibilità di raggiungerla attraverso la progressiva liberazione dagli istinti e dalle inclinazioni. Se non esiste, nel meccanismo deterministico della natura non vi è spazio per l’azione morale ed il Purgatorio diventa una favola per bambini. La risposta positiva data da Dante, mediante la voce di Marco Lombardo e la lezione di Virgilio, rappresenta il fondamento dell’etica umana e cristiana e la giustificazione teologica del Purgatorio. Rimane tuttavia appesa alla risposta un’ulteriore domanda: perché il poeta che, in numerosi passi dà prova di credere all’astrologia, la condanna in questo momento cruciale? Dante, come appare evidente percorrendo la Commedia, non condanna la scienza astrologica. La struttura stessa del Paradiso è di natura astrologica: i beati appaiono immersi nella luce del pianeta che ha influenzato la loro indole e consentito il grado di beatitudine a cui sono pervenuti. I cieli infatti, come sostengono Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, sono strumenti di Dio per governare gli uomini e l’astrologia è del tutto coerente con la visione cristiana della realtà. Non è invece giustificabile l’astrologia “giudiziaria” o divinatoria, ossia la pretesa di ricavare dallo studio degli astri la previsione del futuro. Coloro che la praticano sono imbroglioni, fraudolenti malvagi che approfittano della credulità altrui per i propri interessi. Essi sono collocati nella gerarchia infernale all’interno della quarta bolgia dell’ottavo girone, insieme con indovini e maghi del mondo classico e dell’epoca contemporanea. Come capita a Michele Scotto, vissuto alla corte di Federico II, scienziato e filosofo scozzese, alchimista ed astrologo, al quale vengono attribuite numerose profezie sulle vicende delle città italiane. Ma la teoria sugli influssi astrali a cui Dante fa riferimento non è quella dei ciarlatani smentiti dai fatti. Non si può confondere con la divinazione scalcagnata dei falsi profeti, perché si colloca sullo stretto confine che separa la scienza naturale e la metafisica. Si tratta della scienza astrologica del più famoso medico del 1300, Pietro d’Abano. Egli fonda l’arte medica su una nuova visione della natura, dei cieli e del loro rapporto con la salute dell’uomo. Non si interessa di questioni metafisiche, ossia di philosophia prima, bensì di fisica terrestre e celeste, dei movimenti delle sfere celesti e dei corpi sublunari, seguendo un metodo che egli definisce: naturalia naturaliter. I fenomeni naturali si spiegano con le leggi della natura, non presupponendo cause di tipo soprannaturale, interventi angelici o demoniaci. Nasce da questo approccio alle questioni di fisica il “naturalismo padovano” che numerosi guai provoca a Pietro, sottoposto per ben tre volte a processo per eresia. Non perché mago o negromante, ma perché la sua posizione filosofica contrasta con la visione provvidenzialistica della cultura tradizionale e talora mette in discussione persino i passi evangelici riferiti ai miracoli di Cristo. Naturalia sono i fatti naturali che, secondo Pietro d’Abano, si possono osservare direttamente con un atteggiamento che vale più di ogni testo letto nelle scuole. Per questo in medicina è fondamentale lo studio dell’anatomia, mediante il sezionamento del corpo umano così da analizzarne la struttura. Pietro stesso, nel De venenis, riferisce di un caso di autopsia, compiuto per motivi legali, sul cadavere di un farmacista, avvelenatosi con il mercurio. Se poi i fatti non si possono studiare direttamente, perché troppo lontani per poterli osservare, si possono ricostruire sulla base delle testimonianze di quanti possiedono esperienza ed attendibilità. Come nel caso di Marco Polo, mercante e viaggiatore veneziano, che Pietro racconta d’aver incontrato ed interrogato su uno specifico problema, ovvero se sia possibile che gli uomini vivano oltre la linea dell’equatore. Alle posizioni delle auctoritates che dimostrano sillogisticamente l’impossibilità della vita umana all’equatore, egli oppone la testimonianza del veneziano che asserisce e documenta la presenza umana a quella latitudine. Il metodo naturalia naturaliter non riguarda soltanto la fisica terrestre, ma anche quella celeste, distinta tra scienza del moto degli astri (astronomia) e disciplina che formula giudizi sulle influenze che i pianeti hanno sulla vita degli uomini (astrologia). Le teorie astrali sono esposte da Pietro nel Lucidator dubitabilium astronomiae, un testo nel quale evidenzia la sua posizione a favore della spiegazione tolemaica del cosmo. Tolomeo, il più grande astronomo dell’antichità aveva modificato, nell’opera tramandata dagli arabi con il titolo di Almagesto, la spiegazione aristotelica dei moti planetari. Alla teoria delle sfere concentriche sostenuta da Aristotele aveva contrapposto quella degli epicicli, cioè di movimenti circolari del pianeta intorno ad un punto che si muove lungo una circonferenza intorno alla terra, e degli eccentrici, ossia di sfere ruotanti intorno ad un punto spostato rispetto al centro della terra. La teoria di Tolomeo è chiaramente in contrasto con quella di Aristotele, come avevano osservato aristotelici ortodossi quali Averroè e Tommaso d’Aquino, e con la fisica aristotelica, secondo la quale le sfere erano fatte di etere, una materia sottilissima che avrebbe dovuto essere attraversata dagli epicicli. Tommaso d’Aquino, in particolare, nel suo commento al De caelo di Aristotele aveva proposto di considerare l’astronomia tolemaica come una semplice ipotesi matematica, non vera, ma utile a calcolare le posizioni dei pianeti sulla volta celeste. Pietro d’Abano non aderisce all’interpretazione strumentale della teoria di Tolomeo, ma la assume come la vera spiegazione del sistema cosmico, perché consente di prevedere perfettamente le presunte irregolarità dei moti planetari e di farlo senza presupporre alcun intervento esterno ai movimenti naturali, matematicamente determinati. Se nell’Almagesto Pietro trova la chiave interpretativa dei movimenti cosmici, nell’opera Tetrabiblos individua la maniera per comprendere e prevedere i comportamenti umani. In essa infatti Tolomeo illustrava l’influenza degli astri sulla vita degli uomini, mostrando che ogni combinazione tra le posizioni dei pianeti e le costellazioni, che si verifica nei diversi giorni dell’anno, esercita un’influenza determinante su quanti nascono in quel giorno. Gli astri perciò non producono soltanto effetti generali che riguardano l’intera umanità, come il cambiamento delle stagioni o i fenomeni meteorologici; esercitano anche influenze particolari che coinvolgono i singoli individui. Pietro sviluppa ulteriormente questa dottrina, sostenendo che certamente gli influssi astrali, al momento della nascita di una persona, ne determinano il carattere e le attitudini, ma nel resto della vita, di giorno in giorno variando gli influssi su ognuno, rendono le sue condizioni fisiche ed i suoi comportamenti più o meno adatti a realizzare una certa azione. Di qui l’importanza di conoscere le posizioni degli astri nel momento della nascita e nel momento in cui si intraprendono determinate azioni, come un viaggio o una battaglia: sulla base di tali conoscenze si potrà decidere di realizzare o di rimandare tali azioni ad un momento più propizio. Da ciò deriva l’importanza fondamentale dello studio astrologico per comprendere le condizioni fisiche e psichiche del malato e la terapia più adeguata a guarirlo. D’altronde, proprio negli anni nei quali Dante scrive il Purgatorio, Giotto, che egli considera il più importante pittore dell’epoca, sta dipingendo la volta del Palazzo della Ragione. Realizza su indicazione di Pietro d’Abano il più grande ciclo astrologico che esista per raffigurare la forza degli influssi astrali sulla vita quotidiana, nella grande aula ove si amministra la giustizia della città. Di nuovo Pietro d’Abano dunque sullo sfondo, un personaggio innominato che costituisce l’invisibile avversario di uno scontro che attraversa la Cantica. Nel primo canto Dante colloca il Purgatorio nel contesto simbolico di una geografia terrestre che l’aponense considera errata, perché priva di qualsiasi riscontro empirico e addirittura frutto di menti bacate. Ora l’Alighieri argomenta per bocca di Marco Lombardo contro il determinismo astrologico di Pietro, considerato come la più esiziale negazione della libertà e della moralità umana. La particolare situazione in cui si trova Marco Lombardo consente di stabilire un collegamento tra l’impossibilità fisica di vedere e il concetto di cecità, usato nello schema confutatorio. Il mondo è cieco, non perché sia privo di vista propria, ma perché il naturalismo riduce ogni avvenimento alle leggi meccaniche che lo determinano ed impedisce, come il fumo, di vedere la complessità dei cieli. Quei cieli che non sono le sfere di un meccanismo universale che funziona da sé, ma gli strumenti con i quali Dio regola il mondo e governa gli uomini. Nella definizione del rapporto tra libertà e necessità degli eventi umani, Dante assume una posizione mediana: i cieli danno inizio a ciò che avviene nell’essere umano, nel suo corpo e nel suo carattere, attraverso la formazione delle inclinazioni proprie, ma poi sono l’intelletto e la libera volontà a decidere il comportamento umano. A questo punto, risulta evidente che il contrasto dantesco affonda le sue radici nel terreno filosofico e metafisico, come scontro tra la visione tomistico-dantesca della realtà e quella propria del naturalismo dello Studio padovano. Tommaso d’Aquino dimostra che Dio non solo ha creato la natura, ma continua a mantenerla nell’essere, perché senza il suo intervento sarebbe inghiottita dal nulla. Questo presupposto ontologico produce la conseguenza logica che quel che accade può essere spiegato solo se riferito, direttamente o indirettamente, a Dio. Il naturalismo padovano invece, pur presupponendo che il primo movimento della natura derivi da Dio, ne evidenzia l’autonomia ontologica e logica al punto che quanto vi accade può venire spiegato mediante cause interne alla natura stessa, iuxta propria principia. Autonomia della natura che si traduce in autonomia della scienza fisica rispetto alla metafisica e alla teologia. Autonomia della natura che arriva persino a negare i miracoli, espressioni non tanto dell’intervento divino, quanto dell’ignoranza umana circa le leggi della natura. Purgatorio, canto XXXIII Il canto conclude la sacra rappresentazione nella quale Dante rivive la storia della Chiesa: la sua nascita, le persecuzioni, le eresie, il rapporto con il potere politico sino alla presente corruzione. Attraverso queste straordinarie esperienze la sua vita passata e gli errori in cui è incorso vengono inseriti nel più ampio contesto della storia della salvezza. Protagonista della scena è Beatrice che, in piedi statuaria e rossa in viso, profetizza un evento futuro con le medesime parole con le quali Cristo annunciò la sua morte e resurrezione. Quindi, preceduta da sette donne che simboleggiano le virtù e seguita da Matelda, Dante e Stazio, procede per nove passi. Poi si ferma, invitando il poeta ad avvicinarsi per porle le domande che gli stanno più a cuore. Dante tenta di scusarsi, ma la donna continua a dire e a predire che non tarderà a venire la punizione divina verso i colpevoli della corruzione della Chiesa. Né l’impero rimarrà a lungo senza eredi, anzi verrà il tempo nel quale un personaggio - indicato con un enigma numerico - giungerà per porre fine alla vacanza del potere imperiale. Nonostante l’oscurità di quelle parole e l’indecifrabilità dei riferimenti, Dante viene invitato a ricordare le immagini e gli episodi vissuti e a riferirli al suo ritorno tra i vivi. Il poeta allora assicura che quanto visto ed udito è impresso in maniera indelebile nel suo cuore, ma chiede come mai le parole e le frasi siano così difficili da intendere. A questa richiesta Beatrice, fissando gli occhi su di lui, risponde che quel che capita serve a dimostragli l’insufficienza della scuola che egli ha seguito e a fargli capire quanto la sua pretesa dottrina sia lontana dalla verità di cui lei è portatrice. Il poeta allora stupito confessa di non ricordare quando mai si sia allontanato da lei. Al che Beatrice ribatte che la dimenticanza è la prova del suo errore e la conferma che ha bevuto l’acqua del Leté, il fiume della dimenticanza. A mezzogiorno il corteo formato da Beatrice, Dante, Matelda, Stazio e le sette donne/virtù arriva ad una fonte da cui scaturiscono due fiumi: Leté ed Eunoé. Il poeta non sa capacitarsi di come questo possa avvenire, ma il suo sconcerto viene risolto da Beatrice che ordina a Matelda di condurre Dante a bere l’acqua dell’Eunoé per ravvivare la tramortita sua virtù. Così avviene. Di quella esperienza il poeta vorrebbe descrivere la dolcezza di cui mai si sentirebbe sazio, ma glielo impedisce il limite dell’arte che ha ormai finite le carte destinate alla seconda Cantica. Grazie alla virtù di quell’acqua però egli è rinnovato, come dalla primavera la tenera pianta, e si sente puro e disposto a salire le stelle. Arrivato al termine dell’ascesa, dopo il faticoso percorso che lo ha liberato dalle inclinazioni istintuali, Dante approda in un luogo che appare come il rovesciamento fisico e simbolico di quello dal quale è iniziato il suo pellegrinaggio. Dalla selva oscura in cui errava senza una direzione giunge in un meraviglioso giardino, popolato di allegorie e di simboli. Alcuni sono intellegibili, altri, oltrepassando la capacità di comprensione, si presentano come figure ed episodi enigmatici. Presente nel canto finale è Matelda che per prima accoglie il poeta nel Paradiso Terrestre. È la rappresentazione in forma di figura di un’idea, ossia della vita felice in cui l’uomo viveva prima del peccato originale. Battezza Dante con l’acqua della verità e porta a compimento la sapienza della ragione umana incarnata da Virgilio, perché l’apre alla Rivelazione e al mistero di Dio. Le sette donne rappresentano le virtù, quelle cardinali le cui luci illuminano il volto di Catone e quelle teologali (fede, speranza e carità) che riguardano Dio e animano l’azione morale del cristiano, vivificando le virtù cardinali. Il poeta Stazio che accompagna Dante nell’ultimo tratto dell’ascesa, perché la sua purificazione è compiuta, è la sintesi figurale della riflessione che Alighieri ha compiuto sul significato ed il valore della poesia lungo la salita. Dopo aver fatto i conti con la sua giovanile esperienza poetica ed aver definito il dolce stil novo, l’incontro tra Virgilio e Stazio gli consente di collocare l’invenzione poetica in una prospettiva salvifica. La vera poesia è ispirata da Dio, ne contiene e rivela il messaggio di salvezza. Beatrice guida il gruppo, sollecita, rimprovera e spiega. L’amore che il poeta ha nutrito per la donna terrena e che ha cantato nelle poesie del passato si trasforma ora nella sequela amorosa per colei che gli apre la porta del cielo. Così Beatrice diventa la porta della beatitudine, della visione e dell’unione mistica con Dio. Prima di condurre Dante al lavacro finale che gli consentirà di salire verso Dio, la sua nuova guida conclude la disamina della corruzione del mondo con la profezia di un evento che metterà fine a questo stato di cose ch’io veggio certamente, e però il narro, a darne tempo già stelle propinque, secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro, nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque. Beatrice infatti vede vicina una costellazione del cielo che eserciterà un’influenza favorevole alla venuta di un inviato da Dio per la salvazione della Chiesa e dell’umanità. In tal maniera, Dante stabilisce una precisa corrispondenza tra il primo canto dell’Inferno e l’ultimo del Purgatorio, tra lo spazio oscuro dell’errore e il luogo luminoso della grazia. In quello Virgilio, dopo aver messo in guardia il poeta dal potere malefico della lupa e dalle sue devastanti azioni, preannuncia l’arrivo di un veltro che la caccerà da ogni dove, facendola tornare all’Inferno da cui è uscita. In questo, Beatrice, guardando ad una costellazione che si profila all’orizzonte, rivela la venuta di un messo di Dio, di un inviato dell’Altissimo che porta il numero 500, 10 e 5. Lasciando gli esegeti al diuturno dibattito sul significato della numerologia dantesca, si può trovare una chiave di lettura all’ennesimo enigma del canto. Basta trasformare i numeri arabi in latini (D X V) e ordinare le lettere che il poeta ha scomposto per esigenze di rima, per ottenere la parola DUX, ossia condottiero. Dunque Beatrice annuncia la venuta di un capo politico e militare che ucciderà la puttana e il gigante che rappresentano la Chiesa degenerata e il potere politico che con lei si accoppia. Aspetto non secondario in questa profezia è il ruolo delle stelle propinque, che rendono possibile l’esito palingenetico della storia, la nuova redenzione dell’umanità corrotta. Una costellazione che ha una funzione fondamentale nella profezia di Beatrice, a differenza di quanto non abbiano lo Zodiaco e i pianeti nelle previsioni astrologiche di Pietro D’Abano. Riannodando i fili sparsi lungo l’asse narrativo e argomentativo del Purgatorio, si può cogliere quale significato Dante attribuisca all’astrologia e quale sia la distanza che lo separa dal più famoso astrologo del tempo. Le quattro luci sante sulla spiaggia a illuminare il volto di Catone descrivono e simboleggiano quale sia il ruolo delle influenze astrali nella vita umana. Al centro della salita si colloca la negazione della astrologia deterministica, negazione necessaria a salvaguardare il libero arbitrio che è il fondamento dell’azione morale. Per garantire lo spazio dell’umana responsabilità, Dante confuta la sua negazione, ossia quella astrologia per la quale qualsiasi avvenimento ed azione umana deve essere ricondotto alla meccanica delle cause astrali. Ora, giunto alla conclusione del percorso, il poeta sembra contraddirsi, attribuendo a Beatrice quello che ha negato pochi canti prima all’astrologia deterministica. Si tratta di un paradosso solo apparente, se si pensa al significato che Beatrice assume nella Commedia. La donna che introduce e rivela il mistero divino al poeta, legge nella mente di Dio e quindi interpreta i segni celesti come mezzi usati dall’Onnipotente per realizzare i suoi fini. In questa prospettiva Dante non si discosta dalla tradizione della filosofia cristiana e segna con nettezza il confine che lo separa e contrappone a Pietro d’Abano. L’astrologia per Alighieri risponde ad una visione teologico-finalistica del cosmo, mentre per l’aponense la struttura della realtà fisica è di tipo meccanico. Quel che accade per Pietro è determinato da cause efficienti che si possono verificare e sperimentare, non da cause finali che sono spesso frutto di chi adatta la realtà al proprio pensiero. Non si tratta di differenze meramente tecniche, ma di opposte visioni della natura, dell’uomo e della storia: la visione medievale e quella propria di una cultura moderna della realtà che non nega l’origine divina del cosmo, ma lo considera un sistema autonomo, dotato di leggi proprie che possono e devono essere sperimentate e comprese. La rivelazione di Beatrice si conclude con l’ultimo atto di purificazione del poeta: la cancellazione dei ricordi che lo collegano agli errori e ai peccati commessi. L’annullamento della “cattiva memoria” avviene bevendo l’acqua del fiume Leté, il fiume della dimenticanza che viene recuperato dal mito classico e inserito nel contesto della penitenza cristiana. Tuttavia la donna poco dopo recupera il passato di Dante, quando costui le confessa che molti degli eventi che ha visto e vissuto sono piuttosto difficili da comprendere. <<Perché conoschi>>, disse, <<quella scuola c’hai seguitata, e veggi sua dottrina come può seguitar la mia parola; e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che più alto festina>>. Pur sapendo che il suo seguace, non può ricordare l’origine del suo errore, Beatrice torna sull’argomento, come se Dante narratore si dividesse dall’attore per ricordare a chi legge perché si è perduto nella selva oscura. Il poeta, all’epoca del suo sodalizio letterario e filosofico con Guido Cavalcanti, era stato coinvolto dalla crisi dei modelli tradizionali del sapere, dovuta alla diffusione in Occidente di opere scientifiche e filosofiche greche ed arabe, tradotte in Spagna, Sicilia e Germania. Per la prima volta un sistema organico di discipline scientifico-filosofiche entra dentro all’edificio della cultura cristiana. L’aristotelismo, capolavoro dell’intelligenza greca, arricchito dall’apporto del neoplatonismo greco, ebraico e arabo, si erge come una solidissima costruzione di fronte alla teologia cristiana. Ed una nuova saggezza pagana si confronta con la morale cristiana. Il sapere profano non è più rappresentato dal modesto, inoffensivo corteo delle arti liberali, ma dalla potente sintesi scientifica dell’aristotelismo. La rottura culturale della seconda metà del Duecento produce esiti diversi: in primo luogo, la condanna drastica dell’aristotelismo, considerato contrario alla fede da parte dei teologi soprattutto di scuola francescana, sino alla formulazione di 219 proposizioni definite eretiche dall’arcivescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1277. In secondo luogo, l’assorbimento della nuova cultura, opportunamente riveduta e corretta, nella teologia scolastica (philosophia ancilla theologiae) da parte di Tommaso d’Aquino e del tomismo successivo. Infine l’aristotelismo radicale o averroismo che è ricerca di totale autonomia della scienza dalla religione e formazione faticosa di una cultura laica, come nelle opere di Sigieri di Brabante. Lungo questi sentieri si muove l’esperienza giovanile di Guido Cavalcanti e di Dante Alighieri, guidati dal desiderio di sperimentare nuove soluzioni stilistiche e poetiche, ma anche attratti dalla nuova cultura laica che si respira a Firenze e a Bologna. Mentre però Guido rimane per tutta la vita legato alla sua visione psicologica e filosofica, Dante evolve il suo atteggiamento. La donna si trasforma da centro delle dinamiche d’amore in un ponte che dall’esperienza d’amore conduce all’estasi mistica in Dio: Beatrice, ossia colei che porta beatitudine. Di quella esperienza giovanile rimane in Dante traccia indelebile nel suo bisogno di superarla e di giustificarne il superamento. In questa chiave si può leggere il rimprovero di Beatrice diretto non al poeta, ma a tutti i lettori. “Chi cerca nella ragione la verità non è in grado di seguire la mia parola che è parola di Dio, che è espressione del Verbo rivelato. La scuola di Aristotele risponde ad una logica umana e la sua strada è tanto lontana da Dio, quanto la terra dal Primo Mobile, ossia dal cielo che è misura del tempo e fondamento dello spazio.” Ad una filosofia che ha come orizzonte la terra Beatrice contrappone la visione della realtà dal punto di vista di Dio, ad una prospettiva corta e miope contrappone la comprensione dell’intero nella mente divina, sub specie aeternitatis. Ma al di là e prima dell’errore esiste l’errante che rischia la trappola della follia intellettuale perché spinto dalla ricerca di un senso compiuto del mondo, dal bisogno di una felicità che colmi il suo cuore e la sua mente. Esiste l’errante che ha compreso il suo errore e lo ha superato, acquisendo quelle virtù che l’acqua dell’Eunoè può rinverdire. Così il poeta, dopo aver bevuto al fiume della dimenticanza, giunge al fiume del buon pensiero, del retto intendimento, di quella via che era smarrita. Dopo di aver assunto il Lete dal mito passato, Dante inventa un nome ed un fiume che risveglia le appassite virtù, perché rappresenta un atteggiamento razionale non chiuso in sé stesso, ma aperto al mistero, un sentimento intellettuale in grado di andare oltre quel che appare e compare nella natura e nella storia. La conclusione del Purgatorio è perciò l’ultimo atto del percorso penitenziale e il primo passo verso l’unione mistica con Dio e, nel medesimo tempo, la prova finale della conversione di Dante che è prima di tutto una conversione mentale e filosofica. Se non è possibile affermare che anche in questa circostanza il poeta abbia di fronte il fantasma di Pietro, quel che è certo è che l’aponense sia il giocatore invisibile contro il quale è avvenuta nella Commedia la partita tra la massima sintesi della cultura medievale e il primo nucleo della cultura moderna. Per Dante infatti la tradizione scientifica e filosofica, che ha alimentato i suoi ardori giovanili, deve essere interpretata e vissuta come un cammino anagogico che conduce all’estasi mistica. Per il medico Pietro d’Abano invece essa costituisce un sistema di strumenti concettuali utili a comprendere e agire efficacemente sulla natura. Al primo la salita per la liberazione dello spirito lungo gli aspri versanti del Purgatorio. All’altro la ricerca della diagnosi e della terapia per la cura dell’anima e del corpo. CONCLUSIONE A conclusione di questo breve percorso lungo le scorciatoie montane che conducono al Paradiso Terrestre, viene però da porre una domanda inevitabile. Chi tra i duellanti Dante e Pietro ha lasciato un’impronta più ampia sull’idea/immagine di Purgatorio che rimane nella cultura cattolica? Certamente, tutti ricordano, almeno in Italia, Dante il padre della lingua italiana. In occasione dell’anniversario della sua morte è stato istituito, per decreto ministeriale, il Dantedì e il 25 marzo, nonostante la pandemia in corso, migliaia sono state sui social media le proposte fatte girare per ricordarne il nome e l’opera, come si addice ad un grande della cultura italiana. Di Pietro d’Abano nessuna traccia, nemmeno nel territorio dal quale proviene. Talvolta, passeggiando per il centro termale di Abano, è possibile ascoltare le conversazioni di attempati turisti che si chiedono chi sia quello strano personaggio con in testa un velo da suora che staziona in marmo bianco nei giardini dell’isola pedonale. Qualcuno di loro ha anche cercato risposta dai residenti, ma non ha ottenuto che la classica scrollata di spalle o l’icastico “boh!” Al primo la gloria, al secondo l’oblio. Eppure se usciamo dalla storia della lingua letteraria e affrontiamo quella dell’immagine del Purgatorio, potremo notare che le cose stanno altrimenti. Infatti quel che rimane nell’immaginario cattolico, tanto del clero quanto dei fedeli, non è il frutto dell’ingegno poetico di Alighieri, ma il risultato del lento scavo che la ricerca sperimentale, iniziata dall’aponense, ha prodotto. Per la chiesa ufficiale è in atto un processo di revisione dell’immagine dell’aldilà sulla base della rinnovata esigenza di tornare alle origini della storia cristiana. Per dirla con padre Congar: “bisogna purificare le nostre rappresentazioni e sbarazzarci, se non delle immagini – senza le quali non si può mediare, ve ne sono di valide e anche di belle -, almeno di certe fantasie.” Il grande teologo domenicano ritiene necessario adattare le espressioni con cui si comunica la fede all’evoluzione della società, senza mutilare i contenuti della dottrina, ma esprimendoli con immagini adatte alla società contemporanea. In questo modo è evidente che il Purgatorio per la teologia non può essere pensato come un piccolo inferno a tempo, né tanto meno come un luogo esistente da qualche parte nella nostra dimensione spazio- temporale. Quanto ai semplici fedeli, sembrano del tutto indifferenti rispetto al terzo regno. Le loro domande, le speranze e le angosce esistenziali sono cristallizzate attorno a due poli. Per coloro che pensano alla sopravvivenza oltre il baratro della morte esistono solo due esiti possibili: l’inferno o il paradiso. Immaginati come il condensato di tutti gli incubi umani o come la proiezione dei sogni più belli. In questa condizione, dunque, che fine ha fatto il titanico sforzo del grande fiorentino? Quale sorte è toccata all’immaginario cristiano, creato dall’opera di Alighieri. Sotto quella straordinaria costruzione ha continuato a scavare nei secoli, una paziente talpa che Pietro d’Abano ha liberato nel terreno. Così dopo anni e anni la ricerca sperimentale, che l’aponense ha contrapposto alla dialettica scolastica, ha finito per far crollare anche uno degli edifici più solidi della tradizione cristiana: l’immagine dell’aldilà.
Edizione nr. 79, aprile 2021 |
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