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INVITO AD ARISTOFANE
Umberto Simone

     
 

Hegel ha scritto che chi non conosce le commedie di Aristofane non sa cosa significhi godimento, e credo che non gli si possa proprio dare torto. Tale godimento  però, almeno qui in Italia, è stato fino a non molti anni fa riservato a un gruppo ristretto di specialisti, perché sia i testi originali che le traduzioni erano di difficile reperibilità e, come se non bastasse, di costo alquanto elevato, se non altro per uno squattrinato studente quale ero allora. Ricordo perciò ancora vivamente la gioia provata quando un’amica, figlia del preside del liceo che frequentavo a quel tempo, impietosita dalle mie brame in proposito, mi prestò uno alla volta, spigolati dall’inesauribile biblioteca del genitore, i preziosissimi volumetti della versione eseguita durante il fascismo dall’insigne classicista Ettore Romagnoli per la casa editrice Zanichelli. Anche adesso che di “tutto Aristofane” sia in greco che in italiano ne posseggo una mezza dozzina, quella traduzione rimane la mia preferita, e non solo per ovvi motivi sentimentali, ma proprio perché è non semplicemente magistrale, ma addirittura geniale e la consiglio dunque con tutto il cuore a chi voglia per la prima volta entrare in quel dominio della fantasia che è il teatro aristofanesco.
A ragion veduta ho usato la magica parola “fantasia”: al nostro poeta calvo, come egli stesso argutamente si definiva, non mancavano di sicuro le idee, né per quanto riguarda il linguaggio né per quanto concerne gli intrecci. È proprio grazie al primo punto che noi abbiamo la fortuna di leggere undici delle sue commedie sopravvissute integralmente al naufragio di tutta la rimanente produzione coeva: quei noiosissimi teorici dell’eloquenza venuti secoli più tardi, i cosiddetti atticisti, facendo per una volta prevalere la pedanteria sul puritanesimo, hanno gelosamente conservato queste opere, considerandole come la fonte più copiosa e anche più pura dell’attico antico. In riferimento poi al secondo punto, cioè all’ingegnosità delle trame, saranno sufficienti, suppongo, dei brevi riassunti perché in un pubblico ormai abituato ai soggetti stitici o cerebrali del teatro attuale insorga uno smaccato senso di invidia verso i  molto più fortunati spettatori ateniesi del V secolo avanti Cristo.
Gli Acarnesi, la più antica di queste commedie, datata 425, è un’opera giovanile ma già manifesta una maturità e una verve indiscutibili. Il protagonista, Diceopoli, cioè il Giusto Cittadino, è stufo della guerra che si protrae oramai da troppo tempo…  sì, perché non bisogna dimenticare che Aristofane ha composto le sue scintillanti allegrissime creazioni durante il periodo più buio nella storia della sua città, in piena guerra del Peloponneso, quando la pestilenza travagliava Atene non risparmiando nemmeno l’artefice morale del Partenone, il grande Pericle e gli Spartani stavano annientando, a colpi di distruzioni e di massacri, il suo splendido ma effimero impero. Stufo dunque della guerra, Diceopoli, dopo avere invano cercato di convincere l’Assemblea a stipulare una tregua con Sparta (anzi durante tale illustre consesso gli rubano persino la pizzetta di cipolle che si era portato dietro come merenda!) decide, questa tregua, di concluderla da solo ed acquista un’ampollina che contiene la pace per  trent’anni. Indignati da un simile segno di scarso patriottismo, i carbonai del demo di Acarne  che compongono il Coro, vecchi ed inflessibili reduci della gloriosa battaglia di Maratona e casuali testimoni di una transazione per loro vergognosa, vorrebbero lapidarlo, ma poi si lasciano piano piano rabbonire di fronte alle ritrovate idilliache dolcezze della vita tranquilla di un tempo, mentre sulla scena si susseguono episodi e si alternano personaggi uno più spassoso dell’altro: il famoso poeta Euripide, eterno bersaglio di Aristofane, che viene trattato alla stregua di uno straccivendolo trovarobe, o il miles gloriosus Lamaco (anche lui veramente esistito e forse seduto in platea!) o il messo di una sposina che del suo novello sposo costretto a partire dalla leva militare vorrebbe tenersi a casa almeno, come dire, una precisa parte anatomica, per ungere la quale otterrà dal comprensivo Diceopoli qualche goccia dalla famosa boccetta, o i commercianti, uno di Megara e uno della Beozia, che finalmente possono  superare il blocco e che si esprimono nei loro pittoreschi vernacoli, per la cui traduzione, tornando alla magnifica edizione in precedenza citata, il Romagnoli si fece aiutare da due amici poeti dialettali, cosicché il megarese tanto povero e tanto affamato da essere costretto a vendere le proprie figlie camuffate da porcelline da latte ha avuto il privilegio di parlare nel saporoso napoletano di Salvatore Di Giacomo. E tutta questa vivace sarabanda è ulteriormente condita da frequenti comicissimi botta e risposta e da continue frecciatine a personalità  politiche del tempo, che, se all’inizio possono generare qualche problema in quanto per comprenderle appieno è necessario consultare le note esplicative, poi  però contribuiscono esse pure ad aumentare il divertimento, dal momento che i potenti della terra sotto sotto  rimangono sempre gli stessi e nel demagogo Tizio di allora non è difficile per noi riconoscere  l’onorevole Caio di adesso.
Proseguendo in una carrellata che per ragioni di spazio risulterà purtroppo estremamente sommaria, nei Cavalieri (424) il protagonista Demos, insomma il Popolo ateniese, è un vecchio ormai rincitrullito, completamente in balia di un politicante dell’epoca, Cleone, particolarmente inviso ad Aristofane e da lui cordialmente ricambiato senza esclusione di colpi… e di processi. Due servi fedeli di Demos, che sono poi gli strateghi Nicia e Demostene, gli stessi che periranno nella disastrosa spedizione contro Siracusa così drammaticamente raccontata da Tucidide, per liberare il proprio padrone da siffatta nefasta influenza sono obbligati a trovargli, nella persona di un salsicciaio, un nuovo favorito ancora più rozzo e sfacciato, cosa che certo non suggerisce da parte dell’autore un’eccessiva stima nei confronti della plebe ateniese. Questa commedia, benché non manchi di episodi buffissimi (come quello nel quale durante la riunione della Bulé uno dei due rivali, vedendosi in svantaggio, per impedire che avvenga una votazione a lui sfavorevole grida di punto in bianco che il prezzo delle acciughe è sceso, così tutti si precipitano a comprarle e la seduta si interrompe all’istante) risulta un po’ troppo astiosa, e non è proprio fra le migliori, il che non si può invece assolutamente dire di quella immediatamente successiva, Le Nuvole, un vero straordinario capolavoro. Il campagnolo Strepsiade, nome che in greco evoca subito il risparmio, la parsimonia, avendo impalmato una donna di più alta estrazione, ora perde il sonno per le spese del figlio, che ha ereditato i gusti aristocratici della madre e pensa solo alle corse dei cavalli. Per non pagare i debiti, decide di andare a scuola da uno di quei filosofi in voga che, a quanto ha sentito dire, insegnano un modo per vincere sempre le cause a suon di sottigliezze e di sofismi, e sceglie il frontisterion (cioè il pensatoio) di Socrate, che qui è raffigurato in una luce molto diversa e assai meno lusinghiera di quella tributatagli dal devoto Platone: infatti appare in scena sospeso per aria dentro una cesta al fine di studiare l’astronomia più da vicino, mentre i suoi discepoli  “allampanati e scalzi” misurano il salto delle pulci o disquisiscono sul budello della zanzara.  Il povero Strepsiade è però troppo semplice ed ottuso per simili maestri e viene presto mandato via, mentre suo figlio invece, una volta convinto a frequentare lui la scuola, imparerà così bene che alla fine del… corso accelerato non solo picchierà suo padre ma anche, grazie agli strumenti dialettici appena acquisiti, gli dimostrerà di avere avuto ragione a farlo. A quel punto, all’esasperato Strepsiade non resterà che appiccare per vendetta il fuoco al pensatoio.
Nelle Vespe,un altro figlio persuade invece il padre fanatico dei processi a svolgere la sua attività di giudice puntiglioso e severo nell’ambito familiare, in un tribunale privato, casalingo  dove fra l’altro si assiste a una causa canina, con un cane accusato del furto di un formaggio siciliano, e con tanto di veementi arringhe nonché la convocazione di informati testimoni quali la grattugia, la pentola ed altre suppellettili da cucina. Nella Pace  il vignaiolo Trigeo, anomalo Bellerofonte, sale al cielo in groppa ad un gigantesco scarabeo stercorario per liberare (anche qui!) la sospirata Pace prigioniera del cattivissimo Pòlemos, la Guerra, che vuole tritare tutte le città greche nessuna esclusa in un mortaio, ma non trova più né il suo pestello spartano, il guerrafondaio Brasida, né il suo pestello ateniese, il solito e altrettanto  guerrafondaio Cleone, entrambi felicemente deceduti nel frattempo, e così alla fine rimane scornato e sconfitto.  
Ancora, nelle Tesmoforiazuse è di nuovo tirato in ballo Euripide il quale, temendo che durante le Tesmoforie, ovvero le feste in onore di Demetra celebrate dalle donne al tempo della semina con totale e rigida esclusione del sesso maschile, le donne approfittino dell’occasione per tramare contro di lui perché le ha spesso (vedi Medea, Fedra, etc.) svergognate sulla scena, induce il suocero Mnesiloco a indossare abiti femminili ed a partecipare ai riti segreti: il maldestro Mnesiloco però si tradisce, cerca allora di salvarsi rifugiandosi su un altare non senza avere prima, come ostaggio, strappato a  gran fatica dal seno di una madre affranta la sua creaturina che però, una volta tolte le fasce, si rivelerà un barilotto di vino di quelli cui, a dare retta ai maligni, le brave concittadine di Aristofane non sdegnavano d’attaccarsi di nascosto, e da quel momento in poi la commedia sarà tutto un susseguirsi di ameni tentativi, da parte di Euripide, di liberare il congiunto, sorvegliato da uno zotico arciere scita, sulla falsariga, anzi nella parodia dei più famosi loci euripidei. 
Le donne sono al centro anche di altre due commedie: la Lisistrata e le Ecclesiazuse. Nella prima, molto celebre e molto imitata, sia le ateniesi che le spartane, alleate fra loro da un comune buonsenso femminile, decidono di praticare lo sciopero dell’alcova finché i loro uomini saranno così testardi e stupidi da continuare a combattere; nella seconda, le donne fanno un blitz, assumono il potere e danno vita a uno stato comunista ante litteram dove tutto è di tutti, ma la situazione presenta non pochi nei, ad esempio per garantire l’eguaglianza nei piaceri amorosi le vecchie devono avere la precedenza sulle ragazze, con grande disappunto di un giovanotto il quale già praticamente sull’uscio della sua bella viene artigliato da due megere in civettuola tunichetta gialla che gracchiando si appellano alla legge e non lo mollano.
Il Pluto del 388 è l’ultima in ordine cronologico e infatti vi si sente la stanchezza e ancor di più vi si sente la sconfitta: Atene ha perso, tutta un’epoca grandiosa è tramontata e anche se il dio cieco della ricchezza, il cui nome dà il titolo all’opera, riacquistata la vista grazie al protagonista Crèmilo, comincia a distribuire i suoi doni più equamente ora che può distinguere i buoni dai cattivi, è oramai troppo tardi, questo non riesce a consolarci più.
Violando la cronologia, ho lasciato apposta all’ultimo gli Uccelli, del 414, che probabilmente è la più bella, e le Rane, del 405, che è la mia preferita. Negli Uccelli due amici, stanchi di vivere in un’Atene rumorosa e meschina, straziata dalle beghe politiche interne persino più che dall’ interminabile conflitto panellenico, attuano una di quelle fughe dalla metropoli che spesso tuttora anche noi sogniamo e vanno nel bosco (lo stesso incantato bosco, non dimentichiamocene, che molti secoli dopo sarà lo sfondo del Sogno di una notte di mezz’estate  shakespeariano) a vivere con gli uccelli e a fondare con loro Nefelococcugia, cioè la città delle nuvole e dei cuculi, sospesa beatamente nell’aria fra il mondo degli dei e quello degli uomini e in grado non solo di tenere testa ad entrambi, ma anche di imporre loro, per esempio riducendo i numi alla fame tramite l’intercettazione del fumo dei sacrifici, un comportamento più ragionevole e conciliante.
Nelle Rane invece Dioniso, il dio stesso del teatro, afflitto per la recente morte del suo adorato Euripide, decide di riportarlo in vita e per farlo scende nell’Ade insieme al suo servo Xantia, ovvero il Rosso, come tutti i rossi proverbialmente “malpelo”. Subito all’inizio c’è già un episodio gustosissimo: siccome nessuno dei due vuole caricarsi del bagaglio, interpellano un defunto che proprio in quel momento viene portato a seppellire; questi si mette a sedere sul cataletto e comincia un serrato mercanteggiamento che però non giunge a buon esito, perché il morto rifiuta sdegnosamente i nove oboli che gli vengono offerti per accollarsi lui il pacco:  piuttosto che sfacchinare per una simile miseria, dice letteralmente, preferirebbe “ritornare al mondo”; ordina ai suoi becchini di tirar dritto e si ributta giù. L’oltretomba aristofanesco nel complesso non è un posto tanto sinistro, ci sono addirittura delle osterie, ma Dioniso è un fifone, vede mostri dovunqu; a un certo punto si spaventa così tanto che balza verso il suo sacerdote, quello vero in carne ed ossa e paramenti, quello che durante tutte le rappresentazioni teatrali occupava il posto d’onore, un trono ancora adesso visibile al turista piazzato proprio al centro della prima fila e, irrompendo bruscamente dalla finzione nella realtà, lo invoca: “Salvami, prete mio, che poi ti offro da bere!”.  Comunque  in conclusione non sarà Euripide a risalire dagli inferi col dio, bensì Eschilo dopo che, in un‘esilarante disputa, i due sommi tragediografi si saranno rinfacciati a vicenda vezzi e svarioni, parodiandosi l’un l’altro senza pudore; il verdetto finale, affidato ad una bilancia, rivelerà come i solenni scabri  e petrigni versi eschilei “pesino”, naturalmente secondo Aristofane, molto di più di quelli aerei, raffinati e cavillosi di Euripide. Le rane del titolo sono i ranocchi della palude Stigia che compongono il coro, punteggiando i loro interventi di refrains onomatopeici come già accadeva negli Uccelli, dove il coro composto appunto di uccelli intesseva i suoi canti di esili armoniosi tiò tiò tiò tiotìnx: qui invece il gracidio palustre è a tratti reso da un aspro e raschiante brechechéx coàx coàx, il medesimo brechechéx coàx coàx con il quale ancora al giorno d’oggi gli studenti di una delle più famose università anglosassoni incitano la propria squadra durante gli infuocati incontri di rugby. 
Ovviamente  la grandezza di Aristofane non si esaurisce nelle sue trame variopinte, nelle sue trovate brillanti, nel suo vocabolario mordace, multiforme, inesauribile. Spesso, nella poesia comica, specie dopo i pregiudizi crociani, si tende a tener conto più del termine comica che del termine poesia, che invece è in realtà quello principale. Tale errore è sempre gravissimo, ma con Aristofane lo sarebbe più che altrove, giacché di lato alle situazioni piccanti, ai giochi di parole maliziosi, agli sconfinamenti più spregiudicati nell’osceno e nello scatologico, il filo lirico vibra sempre, quando addirittura, specie invocando quella pace che non viene mai o meglio evocando quella pace che non torna più, non s’allarga in squarci dolci e puri che non hanno proprio nulla da invidiare alla cosiddetta poesia seria. Gli inni alla pace nella commedia omonima sono tutt’un fruscio di nuovi olivi e viti ed alberi di fico da ripiantare e un calore di vecchi amici da ritrovare finalmente intorno ad un boccale di vino. E allorché il coro ancora invisibile delle Nuvole solo la sua voce al suo arrivo fa udire, simile a un tuono lontano e prolungato, in quel suo canto maestoso ci appare una natura ancora come fresca di pittura, ancora tutta pervasa di sacro e veramente intrisa di quella serena luce che ormai chiamiamo greca; ma è soprattutto nella spietatamente franca apostrofe a noi rivolta dal coro degli Uccelli che risuona, dettata fra uno scherzo e l’altro dalla divina malinconia di esistere, la nota più alta: “O uomini dalla vita oscura, somiglianti alla stirpe delle foglie, di povere forze, impastati di fango, ombre inconsistenti, o voi senz’ali, che durate un giorno, simili ai sogni, fate attenzione a noi immortali, eterni, beati, abitanti dell’etere, a noi che non conosciamo vecchiaia …”

 

Uscita nr. 06 del 20/02/2010