:: CULTURA  
 

 

…MA LA DIRITTA VIA NON FU SMARRITA: OSIP MANDEL’ŠTAM NELLA SELVA SOVIETICA
Piera Melone
     
 

Un’edizione tascabile della Divina Commedia, insieme a pochissimi effetti personali, riempie la valigia che Osip (Iosif) Emel’evič Mandel’štam suole tenere pronta, perché la prossima porta alla quale i čekisti arriveranno potrebbe essere la sua, e perché questo, oramai, è il pensiero comune a molti altri cittadini sovietici degli anni trenta: non rischiare di essere colti impreparati. Poco importa che Osip Mandel’štam sia ancora oggi considerato uno dei più prolifici e incisivi poeti e scrittori del secolo scorso; poco vale, per le autorità sovietiche, la sua «stupefacente raffinatezza», così come Lidija Ginzburg ci descrive la sua indole, o il suo traboccare di ritmi, di pensieri, di parole, la profondità estrema con la quale egli sente ed ama il suo Paese al punto tale da restare, sempre tornando, seppure come uno dei molti migranti interni che la Russia ha visto e tutt’ora vede, nell’emarginazione, nella povertà che rasenta la miseria, nella peregrinazione continua e con brevi soste in case di amici o in strettissimi e umidi appartamenti. Per lui, che si forma alla prestigiosa scuola Tenišev di Pietroburgo, eppure già vive gli anni novanta come «quadri staccati, ma uniti interiormente da una sommessa povertà e dal provincialismo morboso, condannato, di una vita moribonda», sarebbe stato decisamente più semplice rimanere a Parigi, dove soggiorna tra il 1907 e il 1908, nella Svizzera meridionale oppure in Italia, dove si ferma per un breve periodo con il fratello Aleksandr nel 1910, o proseguire gli studi iniziati all’Università di Heidelberg nel 1909. Eppure Osip, di origini ebree, nato a Varsavia nel 1891, sceglie all’età di vent’anni di abbracciare definitivamente il suo destino orientale e di iscriversi nel 1911 alla tanto agognata Università di Pietroburgo, dopo essersi fatto battezzare nella chiesa metodista di Vyborg (questo gli consente l’accesso all’università, ma non gli impedisce, più volte, di rivendicare con forza le proprie radici culturali); non concluderà mai i suoi studi, ma il suo talento poetico-letterario, che già si intravede sin dagli esordi alla scuola Tenišev, cresce rapidamente, tanto che, proprio nel 1911, aderisce a quella Cech poetov (Gilda dei poeti) appena formatasi, che nell’anno successivo darà vita all’Acmeismo, movimento post-simbolista guidato da nomi prestigiosi come Nikolaj Gumilev, Anna Achmatova (con i quali Osip condividerà fino alla fine la tragedia dell’avventura sovietica e la profonda bellezza di quella poetica), Sergej Gorodeckij, Michail Kuzmin.
Delle innumerevoli pagine da lui scritte, Mandel’štam riesce a vedere pubblicate sei raccolte poetiche: Kamen’ [Pietra I, 1913], Kamen’ [Pietra II, 1916], Tristia [Tristia, 1922], Vtoraja kniga [libro secondo, 1923], Kamen’. Pervaja kniga Stichov [Pietra. Primo libro di versi], Stichotvorenija [Poesie, 1928]; tutto il resto è samizdat, autoproduzione clandestina. Con il passare del tempo, i sempre più frequenti e prolungati soggiorni in Ucraina − dove nel 1919 conosce l’amore e la compagna di una vita, Nadežda Jakovlevna Chazina − Crimea e soprattutto Caucaso (che egli sente «nel sangue», come il luogo più vicino alle sue origini culturali), alternati da continui spostamenti tra Mosca e Leningrado, diventano vere e proprie fughe, che si manifestano nella ricerca morbosa di un luogo in cui trovare pace.

«Tutto l’armoniosomiraggio di San Pietroburgo – scrive in Šum vremeni [Il rumore del Tempo, 1925] – era soltanto un sogno, un manto scintillante gettato sopra l’abisso, mentre intorno si stendeva il caos del giudaismo, né patria, né casa, né focolare, ma un vero caos, uno sconosciuto mondo uterino dal quale ero uscito, che mi faceva paura, che intuivo confusamente e da cui fuggivo, fuggivo sempre»; in questo caos, nell’erranza, in un’emarginazione che comincia laddove si intensifica e si solidifica la morsa del sistema sovietico, Osip Mandel’štam, sostenuto dalla costante presenza di Nadežda, ha la forza di ritagliare e decorare un angolo edenico – solo perché rigorosamente interiore, inespugnabile, incorruttibile −  di astrazione da un mondo del quale rifiuta di sentirsi contemporaneo. Nella sua risoluta opposizione al proprio tempo, ecco che nel verso (come nella prosa) di Mandel’štam i secoli e le epoche vengono accostate con una naturalezza e una familiarità sconcertante: Firenze è Mosca con il suo Cremlino, le colline di Voronež sono quelle toscane, gli eroi dell’antichità rivivono nelle parole che continuamente li richiamano.

E’ nell’Ucraina degli anni trenta, prostrata dalla politiche della “dekulakizzazione” e della collettivizzazione forzata, che − dopo il memorabile O poezii [Sulla poesia, 1928] e il dirompente pamplet Četvertaja proza [La quarta prosa, 1839, pubblicato nel 1988] contro la cultura ufficiale sovietica − Mandel’štam concepisce uno degli scritti più acuti, più spassionatamente estetici della sua produzione: Razgovor o Dante [Conversazione su Dante, 1933]. In Crimea, Osip e Nadežda assistono allo spettacolo di torme di colcosiani sofferenti degradati a vagabondi; si vive in preda al terrore di furti, arresti, privazioni, ed è allora che il poeta pensa all’angoscioso brulichio di uomini puniti, afflitti, tormentati, che animano le terzine dell’Inferno dantesco. Nemmeno per un attimo, in quell’insonne risacca di pene che è Staryj Krim, così come nel perenne e inquieto spostarsi da un luogo all’altro della sua amata e odiata Unione Sovietica, nelle sue fughe, nella miseria, nella mancanza addirittura di un bene che può sembrare scontato, la carta per scrivere; nemmeno per un istante Osip Mandel’štam smette di credere nel potere eterno della parola – perché parlare, egli ricorda, «significa essere sempre in cammino» - nella sua musica, nel suo ruolo inalienabile di depositaria di una storia, bergsoniana, tutta interiore, e contrapposta proprio a quella biografia nazionale e individuale che il totalitarismo ha brutalmente fermato, interrotto, contorto attraverso i filtri di un realismo socialista che tutto è fuorché verità. Perfino da quell’inferno così tristemente vivo, dalla degradazione del “radioso avvenire” nell’universo malato della persecuzione, dalla miseria, delle purghe, della menzogna, della povertà d’animo dilagante, della suprema violenza del GULag, ci giunge l’elogio dell’armonia, del suono, della cultura in tutta la sua bellezza rigenerante. E allora scopriamo che cosa risuona e stravolge delle sofferenze narrate nel canto XXXIII dell’Inferno, nella figura avvilita e abbattuta del Conte Ugolino, con la barba incolta del carcerato, nel suo avvilupparsi in quel timbro violoncellistico «denso e greve come un rancido miele avvelenato» che ce lo mostra ancora più affamato, terribile: «La densità sonora del violoncello è la più adatta – ci dice Mandel’štam – a rendere il senso dell’attesa e della torturante impazienza. Nessuna forza al mondo può accelerare il moto del miele che fluisce da una caraffa inclinata; per quanto i suoni possano aver fretta, il violoncello li trattiene sempre [..] da una stretta feritoia scaturisce la voce di violoncello di Ugolino […]». Qualcosa, forse, ci suggerisce, leggendo la fine del canto IV «un’orgia di citazioni, […] una passeggiata sui tasti per tutto l’orizzonte dell’antichità, una sorta di Polonaise di Chopin nella quale si esibiscono l’uno accanto all’altro «Cesare armato dagli occhi grifagni e Democrito, che ha scisso la materia in atomi»; ci si apre alla mente, o si rispolvera nella memoria tutta la musicalità del verso dantesco nel nascere del clarinetto e dell’oboe, il tramutarsi della viola in violino, nel flusso di energia che nel suo insieme costituisce una composizione perfetta; avvertiamo l’inquietudine spirituale e la «penosa, smarrita goffaggine che accompagnano ad ogni passo un uomo senza fiducia in se stesso»; e riviviamo l’amore, la passione, il rancore per la città, in quei gironi che altro non sono che «cerchi dell’emigrazione», perché per l’emigrato la sua città, unica, vietata, irrimediabilmente perduta, è sparsa ovunque; lo circonda. […] L’Inferno è circondato da Firenze».

Nel 1934 l’Inferno si fa sempre più vicino; Mandel’štam viene arrestato nel suo alloggio di Mosca, dopo una serie di taglienti poesie scritte nell’autunno del 1933 contro il regime bolscevico, tra cui l’eloquente My živem, pod soboju ne čuja strany [Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese].

La sua valigia, con la copia tascabile della Divina Commedia è, come di consueto, già pronta; il mondo intellettuale lo è di meno: Pasternak si mobilita affinché la pena sia alleggerita, e Osip ottiene una condanna relativamente mite a tre anni di confino nella città di Čerdyn, poi commutata – dopo il tentato suicidio del prigioniero e per una nuova intercessione di Pasternak – in tre anni di domicilio coatto che Mandel’štam sceglie di trascorrere in compagnia dell’inseparabile moglie nella Russia meridionale, a Voronež (con sporadiche fughe a Leningrado e Mosca). Ottiene di poter svolgere attività culturali in alcune istituzioni della città e della regione e continua instancabilmente leggere e comporre liriche, fino a quando, agli inizi di marzo del 1938, viene nuovamente arrestato, trasferito in diverse carceri e sottoposto a valutazione psichiatrica che lo dichiara «malato di mente», e dunque «passibile di incriminazione». Finirà i suoi giorni a Vtoraja Rečka, un lager di transizione nei pressi di Vladivostok; di lui rimangono tutti gli scritti che con abilità e coraggio (e con l’aiuto dell’amica di sempre, Anna Achmatova) Nadežda Chazina, vissuta in esilio fino al 1958, ha conservato nell’unico luogo sicuro e irraggiungibile, la sua memoria.

Per anni Nadežda memorizza, ricorda, consacra l’immagine di Osip, verso per verso, istante dopo istante; il suo Hope against Hope, libro di memorie da lei scritto nel 1964 e pubblicato in Italia con il titolo L’Epoca e i Lupi (1971), rende la vita di questo poeta così straordinario, eppure così comune, perso come tutti nella giungla dell’esperienza sovietica, qualcosa di reale, qualcosa che non si può dimenticare, perché davvero è esistito e ha resistito, si direbbe, nonostante la selva oscura sovietica dalla quale non tutti sono riusciti a tornare, come Mandel’štam stesso ci rivela in Četvertaja proza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita fui fermato in una sovietica selva oscura da briganti che si dissero miei giudici […] tutto fu spaventoso come un sogno infantile».

 

Uscita nr. 77 del 20/02/2017