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IN BILICO TRA MODERNITÀ E TRADIZIONE: VICO MAGISTRETTI E L’ARCHITETTURA
Alice Fasano

     
 

Ludovico Magistretti, figlio dell’architetto Pier Giulio, nasce a Milano il 6 ottobre 1920. Proviene da una famiglia di architetti di lunga tradizione poiché il padre aveva collaborato alla progettazione dell’Arengario di piazza Duomo e il suo bisavolo, Gaetano Besia, aveva costruito il Reale Collegio delle Fanciulle Nobili nella seconda metà dell’Ottocento. Desideroso di seguire le orme dei suoi predecessori, a diciannove anni Vico si iscrive alla Facoltà di Architettura del Regio Politecnico di Milano, seguendone con continuità i corsi fino al 1943, anno in cui, come molti altri giovani intellettuali fuoriusciti dal paese per ragioni politiche, si trasferisce in Svizzera proseguendo gli studi al Champ Universitaire Italien di Losanna. In questi mesi ha modo di stringere amicizia con Ernesto Rogers, che risiede nella città d’oltralpe esercitando l’insegnamento, dopo essere sfuggito alle leggi razziali e ad un breve periodo di internamento a Vevey. Magistretti si riconosce discepolo dell’architetto triestino, considerandone il pensiero come punto di riferimento fondamentale proprio negli anni di formazione intellettuale e professionale. Elemento di spicco della generazione formatasi a ridosso dei maestri nati negli ultimi decenni dell’Ottocento, Vico può vantare un curriculm accademico di prima categoria. Nel 1945, fresco di Laurea, il giovane architetto comincia a lavorare nel periodo in cui il movimento razionalista attraversa una radicale revisione che, trascinata dal corso impetuoso delle vicende politiche internazionali, finirà per risolversi nel drammatico momento della ricostruzione. L’anno successivo nasce il Movimento di Studi per l’Architettura (MSA) e il neolaureato Magistretti ne sottoscrive lo statuto partecipando con determinazione alle iniziative del gruppo, che è attivo su moltissimi fronti: dal rapporto con il pubblico alla pubblicistica e all’autopromozione, dalle imprese collettive alla partecipazione agli organi di controllo e gestione fino all’ammissione nei meccanismi di trasformazione del sistema legislativo, normativo, sociale e produttivo. Ricalcando in buona proporzione la struttura ramificata del Ciam (Congresso Internazionale dell’Architettura Moderna), il MSA sembra volerne riprodurre in scala locale l’impegno propagandistico e didattico in favore dell’architettura moderna. La mobilitazione di gruppo deve produrre progetti e idee in grado di influenzare positivamente l’azione degli organi amministrativi che pianificano l’urbanistica della città e del territorio. Una tensione utopica di riscatto morale anima questo movimento, stabilendo nella prassi l’occasione concreta per quell’azione di riforma sociale e intellettuale su cui si era arenata la precedente generazione razionalista. Il modello di comportamento che ne deriva definisce un nuovo tipo professionale: intellettuale e tecnico nello stesso tempo, secondo l’ampia accezione umanistica incarnata dallo stesso Rogers. Seguendo questi principi fondamentali Vico esordisce professionalmente nel 1947, quando, con Paolo Chessa e Mario Tedeschi, ottiene l’incarico di realizzare due edifici a schiera destinati ad abitazioni per reduci della II guerra mondiale nell’ambito del quartiere sperimentale QT8, progettato in occasione della VIII Triennale di Milano a seguito di un concorso, promosso dal Ministero dell’Assistenza Postbellica. Il bando è molto preciso: si richiedono abitazioni per nuclei familiari di quattro, sei, otto persone specificando le metrature minime per camera da letto e soggiorno; si esige inoltre, tassativamente, il riscontro d’aria trasversale per ogni singolo alloggio. La sperimentazione è dunque rivolta alle disposizioni planimetriche, all’altezza dei locali e all’orientamento delle costruzioni più che all’impiego di materiali moderni. Nei due progetti di Magistretti è evidente il riferimento ai modi compositivi, di retaggio razionalista, ispirati ai precetti Ciam e alle sperimentazioni europee degli anni Trenta. Queste “casette per reduci” si distinguono in alzato per la particolare conformazione del tetto a due falde di diversa inclinazione, impostato trasversalmente su ogni cellula della schiera. Tale soluzione imprime un innovativo slancio verticale alle costruzioni, restituendo al tempo stesso un forte riferimento alla tradizione contadina. All’incirca dieci anni dopo, nel 1955, l’architetto avrà l’occasione di espandere il proprio intervento nel quartiere QT8 con la costruzione della chiesa di Santa Maria Nascente in collaborazione con lo stesso Tedeschi. L’edificio progettato è a pianta centrale, basato sul gioco sfalsato di due cerchi eccentrici che determinano la posizione dell’altare maggiore, del pulpito, del matroneo e del porticato perimetrale con pilastri in calcestruzzo a vista, che si allarga in corrispondenza dell’ingresso per connettersi al battistero, ugualmente a pianta circolare. Un sottile campanile di calcestruzzo armato sorge autonomo rispetto alla chiesa, completando l’edificio.

Nei primi anni Cinquanta le insistenti aspirazioni al mito americano del “grattanuvole”, che già tra le due guerre solleticavano l’ego della facoltosa e abbiente borghesia milanese, sono accolte e interpretate da molti architetti: nasce così una celebre serie di torri che delinea un profilo decisamente moderno per la città industriale lombarda in via d’espansione. Magistretti contribuisce al tema dello sviluppo verticale con almeno tre progetti fondamentali, distribuiti nel decennio che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Sessanta. Primo in ordine cronologico sorge l’edificio per abitazioni costruito in via Rovere, un’area adiacente al Parco Sempione. La progettazione comincia nel 1953, quando il Comune di Milano permette all’architetto di utilizzare la stessa cubatura approvata per la realizzazione di un edificio a corte, per costruire invece una torre alta venti piani, che si stagli oltre la linea d’orizzonte del parco. Al termine dei lavori, nel 1956, la costruzione risulta occupare un’area limitata del lotto disponibile (450 mq su un totale di 1200 mq) proprio grazie al forte sviluppo in altezza e alla presenza di tre piani di parcheggi sotterranei. Le pareti che separano l’atrio dall’esterno sono realizzate in cristallo di sicurezza e la pavimentazione, che all’interno è di serizzo grigio, diventa di porfido all’esterno. L’impianto dell’edificio è ad L e l’ampia scala poligonale è posta all’incrocio delle due direttrici, che coincidono con la giacitura dei due appartamenti da sei o nove locali previsti per ogni piano. Tutti gli alloggi sono dotati di un terrazzo panoramico e le dimensioni totali di ogni singolo abitato sono molto simili: varia solo l’ampiezza del soggiorno che è inversamente proporzionale al sistema delle aperture, determinando il carattere movimentato del prospetto. La copertura piana forma una terrazza comune, raggiungibile dall’ultimo piano tramite una scala esterna.

La seconda occasione per cimentarsi con il tema dell’altezza arriva nel 1958, quando l’INA-Casa incarica alcuni tra i maggiori architetti del dopoguerra milanese di progettare e costruire il quartiere Pirelli su un’area di 26.300 mq, tra viale Sarca e Cinisello Balsamo. Il tratto più interessante di questo intervento è che per la realizzazione sono scelti metodi e tecnologie innovative di prefabbricazione. L’imponente complesso è formato da tre edifici a torre di nove piani circondati perimetralmente da quattro fabbricati a stecca di tre piani, articolati a L e a C, per un totale di 290 appartamenti. L’articolazione dei volumi e degli spazi esterni in tal modo determinata è attrezzata con un campo da calcio, aree per il gioco, percorsi pedonali e carrabili.

Il palazzo ad appartamenti di piazzale Aquileia, costruito tra il 1962 e il 1964, rappresenta il terzo e ultimo livello nell’evoluzione del tipo edilizio a torre. L’intervento sorge su un’area dov’era stata prevista la costruzione di due edifici: uno esterno, di completamento al piazzale, l’altro arretrato all’interno di un giardino. Il corpo affacciato sulla piazza segue la tipologia del blocco residenziale con appartamenti di grandi dimensioni, servizi rivolti su strada, camere e soggiorni aperti sul giardino condominiale. La torre si presenta invece estremamente articolata, consentendo parecchie variazioni nel taglio degli appartamenti. I nove piani fuori terra, alti in tutto trenta metri, sono caratterizzati da ampie finestrature che movimentano i prospetti, grazie anche allo svuotamento dell’angolo, tema caro a Magistretti. Al centro di un corpo scala di calcestruzzo armato con andamento a conchiglia è posto un ascensore di forma circolare che porta sul tetto piano della torre, dove era prevista una piscina che non viene però costruita.

La particolare attenzione rivolta al tema della casa e dell’abitare finisce per monopolizzare l’attività di Magistretti, che mette a punto un linguaggio morfologico estremamente espressivo in grado di esercitare un fascino irresistibile sulla cultura architettonica lombarda, anche se a volte viene polemicamente criticato. A tale proposito è memorabile la sua partecipazione nel 1959 al Congresso Ciam di Otterlo, dove gli italiani presentano la torre Velasca dei BBPR (guidati da Rogers), la mensa Olivetti di I. Gardella, le case a Matera di De Carlo e la celebre casa Arosio ad Arenzano del Nostro.

Questi progetti provocano un generale scompiglio e i loro ideatori vengono “scomunicati” per aver presentato opere troppo dense di riferimenti al passato, alla tradizione dei luoghi e al rapporto con l’ambiente circostante. Tali polemiche rappresentano in un certo modo l’emblema della crisi profonda che in questi anni investe la nota istituzione, fino ad allora indiscussa protagonista del dibattito intorno all’architettura. Il progetto per la villa Arosio era nato circa tre anni prima del Ciam di Otterlo, nell’ambito del piano urbanistico per la Pineta di Arenzano ad opera di Gardella, Zanuso e Veneziani. Questo edificio assumerà nella carriera di Magistretti un valore simbolico innegabile, determinando una significativa evoluzione del suo linguaggio compositivo in direzione di una maggiore articolazione dei volumi e delle piante. L’impianto della casa per vacanze, rispettando l’andamento irregolare del terreno, sembra impostato sul rapporto tra due elementi rettangolari paralleli, uno dei quali leggermente avanzato rispetto all’altro: ne consegue un differente trattamento delle altezze e dei volumi nei locali della villa. Un ampio ingresso principale di antica tradizione introduce al grande salone posto in posizione ribassata di tre gradini. Dallo stesso atrio si sviluppa il passaggio alla camera da letto padronale che si affaccia direttamente sul soggiorno, sebbene situata ad un livello più alto rispetto ad esso. I servizi e le altre camere sono disposte nella zona retrostante a quella di rappresentanza, caratterizzata da un sistema ad ampie vetrate. L’accesso dalla strada avviene attraverso un percorso pavimentato con lastroni di pietra e una rampa a gradoni in leggera pendenza. La scala esterna di calcestruzzo armato sagomato e senza parapetto conduce alla copertura piana trattata a verde, arginata da due balaustre di carabottino.

Negli anni del boom economico il linguaggio e lo stile di Magistretti sono del tutto maturi e l’architetto ha ormai abbandonato il tema dell’abitazione popolare, per seguire la sua più congeniale vocazione di interprete della nuova borghesia urbana, che desidera case di villeggiatura e luoghi per il relax e lo sport immersi nel silenzio della natura. Nel 1958 Magistretti e Veneziani ottengono la commissione per la nuova sede del Golf Club di Carimate e ne studiano l’impianto generale progettando sia l’area a verde con campi da tennis e galoppatoio, sia la club house con gli ambienti di servizio e la grande piscina dalla particolare forma ad “innaffiatoio”. L’edificio principale è dotato di tre gruppi di spogliatoti al piano inferiore, una segreteria, un ristorante con grandi terrazze e una sala di lettura al piano superiore. La pianta ad L è studiata per conformarsi all’andamento del terreno e per rispettare i grandi alberi preesistenti. Nel susseguirsi di livelli che gradatamente conducono dall’ingresso verso il ristornate, la club house sviluppa temi fondamentali e modi compositivi riconducibili all’esperienza di casa Arosio, come i dettagli di definizione degli angoli, le lunghe finestre a nastro verticale negli spigoli e la giustapposizione dei volumi.

Nella prima metà degli anni Sessanta l’attività di Magistretti è completamente assorbita dai progetti di svariate country houses per la committenza alto borghese. La casa Bassetti ad Azzate, del 1962, sorge su un’altura boscosa non distante dal lago di Varese. Il progetto, che si sviluppa su tre livelli adattandosi al terreno scosceso, mira al rispetto della particolare natura del luogo. La pianta presenta una complessa articolazione con notevoli dislivelli: due elementi di risalita autonomi servono le diverse zone della casa. Sul lato nord-ovest le camere dei ragazzi sono distribuite a ventaglio, proiettate verso l’esterno come speroni, a spigolo vivo. Questa zona è coperta da un tetto piano con giardino pensile e, man mano che l’edificio si sviluppa a gradoni, questo diviene una terrazza-giardino per i locali sovrastanti. Casa Schubert a Ello, detta “Il Roccolo”, è realizzata nello stesso biennio e propone nuovamente il disinvolto revival dell’abitare nella natura: rispettando le caratteristiche del luogo prescelto per la costruzione, Magistretti raggiunge una perfetta integrazione tra l’architettura ed il paesaggio circostante che gli suggerisce una particolarissima forma a ventaglio, volumetricamente risolta su più livelli. La pianta ricorda la sagoma di un “volatile ad ali spiegate” il cui corpo centrale è destinato al soggiorno mentre le ali ospitano i servizi e la zona notte. Il grande atrio, opposto al soggiorno, ma ad esso collegato, si affaccia sull’ansa semicircolare rivolta al colmo del roccolo.

Nel decennio successivo Magistretti affianca sempre di più all’attività di architetto quella di designer, progettando arredi e oggetti che diventano ben presto classici della produzione contemporanea. Nel 1967 riceve il Compasso d’Oro per la lampada Eclisse, conferitogli una seconda volta nel ’73 per la sedia Maralunga e una terza nel ’77 per la lampada Atollo.

Nel 1978 l’Università Statale di Milano lancia un concorso per la realizzazione della nuova Facoltà di Biologia. Il lotto messo a disposizione è adiacente al Politecnico, dunque compreso in un’area caratterizzata, sin dai primi anni del secolo, dalla presenza di un importante polo scientifico universitario. Nel bando di concorso, vinto da Magistretti e Francesco Soro, è specificata la necessità di una suddivisione funzionale delle due attività predominanti dell’edificio: la didattica e la ricerca. Questa distinzione è espressa dai due progettisti tramite l’efficace dialettica tra i volumi alti, destinati ai dipartimenti e ai laboratori, e i volumi più bassi, generalmente occupati dalle aule. Le tre torri con copertura di rame “a piramide” conclusa da quattro camini cilindrici, conferiscono particolare riconoscibilità all’intero complesso. Due di queste torri raggiungono i sette piani mentre la terza si abbassa di un livello, ma in tutti e tre i casi le dimensioni delle aperture e dei relativi serramenti si riducono della metà dal terzo piano in su. Completa l’intervento il corpo basso, di impianto semicircolare, con copertura radiale di lastre in rame alternate a lucernai. Questo edificio ospita un’aula a gradoni con 300 posti, una più ridotta con 100 e altre tre minori. Gli spazi interni sono percorsi da setti semicircolari e scaloni di calcestruzzo armato ad andamento curvilineo. Il sistema degli impianti specifici destinati ai laboratori corre in parte a vista lungo i soffitti e in parte all’interno di arredi tecnici modulari, appositamente predisposti. Nel sottotetto delle torri sono invece installati gli aspiratori e gli impianti generici di funzionamento dell’edificio. Infine, la struttura di calcestruzzo armato a elementi prefabbricati si manifesta all’esterno con travi, solette e pilastri leggermente aggettanti rispetto alla superficie del prospetto, verniciati di rosso. La facoltà è terminata e operativa già nel 1981.

Nel 1986 Magistretti affronta un tema nuovo, particolarmente interessante poiché lo riporta a studiare soluzioni intelligenti e funzionali per ridurre al minimo gli sprechi: il nuovo centro di elaborazione dati della Cassa di Risparmio di Bologna deve nascere dalla rifunzionalizzazione di una preesistenza industriale, l’ex deposito Alfa Romeo. Il progetto realizzato sfrutta le caratteristiche modulari del vecchio edificio prefabbricato, riproponendone l’andamento perimetrale. Il complesso si sviluppa partendo da un volume centrale a impianto quadrangolare di un solo piano e delle stesse dimensioni della struttura originaria, cui si affiancano due edifici multipiano destinati ad accogliere le funzioni di supporto alle attività del centro. Il senso di estrema compattezza che permea l’intero progetto è ottenuto anche grazie al diffuso utilizzo di materiali quali il calcestruzzo armato a vista, nella struttura e nei tamponamenti, e il rame per le coperture. Il rapporto con l’area semiagricola circostante è stato molto curato dall’architetto, che ha previsto la sistemazione del verde anche all’interno dell’ex capannone, utilizzando grandi finestrature per mettere in relazione gli ambienti interni con l’esterno.

Dagli esordi nella Milano della ricostruzione alla vocazione di interprete del raffinato gusto alto borghese, dalle brillanti incursioni nel campo del disegno industriale ai progetti per grandi complessi di ricerca e sviluppo, le esperienze di Magistretti hanno segnato il percorso di un’esistenza professionale veramente unica. Questi progetti, con la loro multiforme sembianza stilistica, riflettono la perfetta semplicità di un modello archetipo.

 

Uscita nr. 70 del 20/12/2015