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L’IMPETO TECNOLOGICO DELLA GERMANIA DI BISMARK E LO SVILUPPO DELL’ARTE INDUSTRIALE
Alice Fasano

 

 

La vicenda artistica tedesca del XIX secolo risente del tormentato processo che solo nel 1870 porterà all’unità nazionale. Lungi dal ritornare, come accadde in Italia, alla condizione precedente il 1789, la Germania conservò tutti i benefici delle misure unificatrici napoleoniche, passando da 360 Stati a 112 nel 1803 e da 112 a 38 nel 1815. Grazie a questi rimaneggiamenti territoriali, alle riforme e alle innovazioni introdotte, Napoleone incoraggiò e stimolò, se pur involontariamente (aveva rinnegato, con il famoso decreto del 19 novembre 1792, l’idea di nazione lanciata dalla Rivoluzione), la coesione politica e spirituale “tra popoli dello stesso ceppo etnico e linguistico”. Stimolando nei popoli oppressi lo studio della storia e delle glorie passate e il senso della tradizione, richiamandoli a una dignità che avevano perduto e all’esercizio di un potere che non avevano mai avuto, l’impresa napoleonica fu il presupposto necessario all’unità nazionale tedesca. Ma ciò che sarà veramente decisivo per l’unificazione di questi popoli fu la convinzione di essere destinati, come nazione, ad una missione storica nel futuro. In questo substrato culturale attecchì con facilità l’idea bismarckiana di una nazione-azienda, e presto si sviluppò un sistema che fece convergere tutte le forze germaniche nello sviluppo di un poderoso apparato tecnologico, espressione dell’egemonia politica tedesca. Parallelamente prese animo un acceso dibattito filosofico e letterario, che pur sfiorando marginalmente l’arte figurativa, creò le premesse, agli inizi del Novecento, per lo sviluppo del movimento espressionista. L’idea per cui “l’arte è espressione dell’irrazionale e quindi degli impulsi e dei sentimenti con cui la spiritualità umana reagisce alla realtà naturale, affrontandola o evadendo nel sogno” (G.C. Argan), si può considerare una costatante del pensiero teoretico tedesco; infatti, già alla metà del secolo XVIII, la poetica paleo-romantica dello Sturm und Drang fu una chiara espressione di questi concetti. Dopo la metà dell’Ottocento, il filosofo tedesco K. Fiedler elaborò la teoria della pura visibilità, secondo la quale l’artista esprime tramite reazioni motorie le percezioni sensoriali del mondo reale. Questo concetto, che sembrerebbe spiegare la teoria dell’Impressionismo, sicuramente contribuì alla sua diffusione in territorio tedesco; ma anche gli artisti che più si avvicinarono a questa teoria, non ne colsero immediatamente il significato profondo, fermandosi ai caratteri più superficiali come la brillantezza del colore e la fattura rapida. Negli ultimi anni del secolo la Germania partecipò attivamente al Modernismo, movimento nel quale sono comprese tutte le correnti artistiche che si svilupparono nell’ultimo decennio del XIX secolo, allo scopo di interpretare ed assecondare il forte impulso allo sviluppo economico-tecnologico della civiltà industriale. I motivi comuni agli artisti che seguirono queste tendenze furono la rinuncia a seguire il modello classico, sia nelle tematiche che nello stile, a favore di un’arte che fosse adeguata ai tempi moderni, la volontà di avvicinare sempre di più l’arte pura alle sue applicazioni nei vari campi della produzione industriale (arredamento, abbigliamento, arredo urbano ecc.), l’integrazione funzionale dei motivi decorativi e la ricerca di un linguaggio internazionale o europeo.

Lo stile Art Nouveau rispose perfettamente a tutte le nuove esigenze. Questa tendenza, infatti, interessò tutti i paesi, europei e americani, in cui l’alto grado di sviluppo raggiunto, aveva creato le condizioni favorevoli alla diffusione in maniera uniforme (eccetto lievi varianti locali) dei principi artistici modernisti. Formandosi nelle capitali, questo stile assunse un carattere tipicamente urbano, anche se, per mezzo delle riviste d’arte e di moda, del commercio e del suo apparato pubblicitario, come le grandi esposizioni mondiali, arrivò fino alle provincie. Inoltre, avendo toccato tutte le categorie del costume, si sviluppò come una prima, vera forma di moda per assecondare l’accelerazione dei ritmi di produzione affrettando anche quelli del consumo e del ricambio. Infatti “la moda è quel fattore psicologico che provoca l’interesse per un nuovo tipo di prodotto e comporta la decadenza del vecchio”. Pur mostrando alcune variazioni determinate del tempo e dal luogo, lo stile Art Nouveau fu caratterizzato da alcune costanti. Innanzitutto il soggetto naturalistico che rappresentò un punto fondamentale di questa corrente, poiché ristabilì il rapporto tra uomo e natura. Grazie alle nuove scoperte in campo scientifico, come il microscopio, la fotografia, ecc., l’immaginazione degli artisti fu stimolata in modi del tutto innovativi e si avventurò nei campi del marco e del micro cosmo. Fu così che le creature del mondo naturale ispirarono forme e volumi nuovissimi: la struttura ossea degli animali veniva stilizzata, i microrganismi rappresentati come apparivano sotto le lenti del microscopio e la sinuosità degli organismi vegetali ispirava ritmi impostati sulla curva e sulle sue varianti (vedi il celebre arazzo di Hermann Obrist [1862-1927] definito a colpo di frusta, denominazione che in seguito definirà per antonomasia l’intera produzione Art Nouveau). Altre costanti tipiche di questo stile furono i motivi iconici e stilistici derivati dell’arte giapponese in seguito all’attenuarsi del regime d’isolamento economico e commerciale di quel paese, il linguaggio morfologico basato su arabeschi lineari e cromatici, l’insofferenza per la proporzione e l’equilibrio simmetrico e infine la volontà di comunicare per empatia un senso di agilità, elasticità, leggerezza, gioventù e ottimismo. Per questi caratteri l’Art Nouveau sembra rappresentare una visione molto ottimista verso il futuro, caratteristica della società nella nuova era delle macchine. Utilizzando oggetti e arredi (urbani e domestici) comodi, funzionali, sicuri ed esteticamente belli, l’utente era alleggerito dal peso del bisogno e della fatica e la sua mente, finalmente libera, poteva dedicarsi ad interessi culturali e ricreativi. Tutto questo, tuttavia, fu anche funzionale alla dissimulazione di quella che era invece la drammatica condizione di asservimento al capitale, di avvilimento economico, sociale e morale e di alienazione dei lavoratori dell’industria, abbandonati al loro triste destino nel suburbio delle fabbriche e degli sterminati ghetti di abitazioni operaie. Come già detto, la Germania ebbe un ruolo da protagonista nella vicenda del Modernismo.

A Monaco, centro di una nazione tecnologicamente già molto evoluta, si sviluppò la prima Secessione (1892) e fece la sua apparizione lo Jugendstil, parallelo tedesco all’Art Nouveau francese. Nel 1897, su di una parete piatta ed anonima dell’atelier Elvira, comparve un grande fregio astratto con andamento guizzante e dinamico, d’ispirazione zoomorfica. Il pensiero di Fiedler cominciava ad essere capito ed interiorizzato dagli artisti; infatti, se ogni linea e ogni colore sono significanti dell’opera d’arte, che è valutabile solo per il suo valore visivo, non esiste più differenza tra arte pura e arte decorativa e la ricerca di una forma estetica rispondente a questi principi si estese a tutto ciò che formava l’ambiente e serviva alla vita dell’uomo. La struttura degli arredi di Bruno Paul (1864-1968) s’ispirò al funzionalismo organico del mondo naturale; Bernhard Pankok (1872-1943) alternò al rigore geometrico una sfrenata fantasia e Richard Riemerschmid (1868-1957) raggiunse un’elevata qualità estetica resa logica e funzionale dalla fusione spontanea tra la componente ingegneristica e quella artistica.

A Weimar fu promossa una rete di laboratori e di piccole manifatture allo scopo di elevare il livello artistico dei prodotti e poter sostenere la concorrenza. In quest’ambito cominciò la carriera di Henry Van De Velde (1863-1957), il quale sosteneva che la decorazione poteva esistere solo se organicamente inserita nella struttura dell’opera: infatti la bellezza artistica dei suoi oggetti e delle sue architetture risiede nella razionalità della loro fabbricazione. Van De Velde fu inoltre chiamato a dirigere la scuola di arti e mestieri della città, di cui progettò l’edificio (1907) destinato a diventare, pochi anni dopo, la sede del rettorato della Bauhaus-Universität nel periodo di Weimar. La fondazione di questa scuola, e di numerose altre in tutto il paese, rientrava in quel programma che, seguendo la linea iniziata da Henry Cole negli anni cinquanta del secolo XIX, affiancava agli istituti una fitta rete di musei in cui erano esposti oggetti industriali e artistici di vario tipo e provenienza. Il criterio di “imparare confrontando” diede vita all’istituzione tipicamente ottocentesca del “museo artistico-industriale”. Questa organizzazione espositiva faceva capo al Museo Imperiale di Arte Decorativa di Berlino, che forniva, con le sue raccolte, le scuole regionali e i vari musei diStato. Un caso particolare di dette istituzioni fu la colonia di artisti sorta a Darmstadt nel 1901 ad opera del granduca d’Assia Ernst Ludwig von Hessen. Lo spirito animatore di tale istituto fu vittoriano, non solo perché il granduca era nipote della regina Vittoria e aveva ricevuto un’educazione prettamente inglese, ma anche perché questi tentò di realizzare quell’idea della Guild of Handicrafts predicata da Ruskin, Morris e dai seguaci di quest’ultimo, che possono considerarsi,per i loro lunghi soggiorni a Darmstadt, i consiglieri del granduca e forse gli ideatori stessi della Colonia di artisti. Per realizzare il villaggio furono chiamati sette progettisti tra i quali spiccano i nomi di Joseph Maria Olbrich (1867-1908), che progettò quasi tutti gli edifici, e di Peter Behrens (1868-1940), che mostrò una grande versatilità nel realizzare architetture dal linearismo appena ondulato e arredi dai colori chiari, i cui intrecci curvilinei formavano sagome paraboliche. L’impresa fu vana. Semplificando le forme dell’Art Nouveau, i progettisti della colonia volevano rendere i prodotti più accessibili, poiché potevano essere prodotti semi-industrialmente. Purtroppo la realizzazione rimase molto costosa, anche se le forme erano state impoverite, perdendo inoltre la valenza estetica artigianale. Molti architetti modernisti si dedicarono all’architettura industriale. Il lavoro all’interno delle fabbriche era inteso come il trionfo dello spirito sulla materia e i lavoratori, anche se sfruttati, identificavano la fabbrica come il luogo dove compiere la propria missione storica. In questo senso va interpretato il progetto di Hans Poelzig (1869-1936) per la torre di Posen, che nei volumi suggerisce l’idea di un enorme pulsante da schiacciare per mettere in moto il meccanismo dell’intera “macchina”.

Hermann Muthesius (1861-1926), dopo aver soggiornato per sei anni in Inghilterra nell’insolita veste di “spia del gusto” per il governo prussiano, una volta tornato in patria suggerì di affiancare dei laboratori sperimentali a tutte le scuole di artigianato artistico. Conseguenza diretta di quest’iniziativa, che mirava ad inserire la nazione-azienda tedesca nel mondo della produzione industriale internazionale, fu la nascita nel 1910 del Deutscher Werkbund ad opera dello stesso Muthesius. Fine di quest’associazione era incrementare la produzione delle industrietedesche, migliorando la qualità dei prodotti, attraverso un autentico riavvicinamento tra artisti e produttori. Muthesius sosteneva che l’arte industriale moderna doveva superere i vecchi stili artistici e derivare logicamente la forma di un oggetto dal suo scopo; per questo nel 1914 elaborò una tesi in dieci punti invitando i progettisti tedeschi a concentrarsi su forme standardizzate, producibili in grandi quantità e a costo ridotto, secondo il modello della tipizzazione, ossia dell’ideazione di un numero definito di forme destinate a comporsi variamente. Questo concetto andava oltre la razionalizzazione della produzione, creando un modello di stile veramente moderno, in cui la bellezza derivava dalla concezione razionale della forma. Si creò allora un forte contrasto tra il gruppo di Muthesius e un gruppo composto da piccoli industriali, artigiani e progettisti capeggiato da Henry Van De Velde. I primi puntavano allo sviluppo di una realtà industriale capace di imporsi sui mercati mondiali, i secondi volevano esaltare il valore dell’artigianato e della vita rurale, rimanendo così legati alla tradizione ariana e condannando la decadenza delle città industrializzate. Ancora una volta vennero alla luce tutte le contraddizioni dell’acceso nazionalismo prevalente nella cultura tedesca, che da una parte spingeva verso il progresso e dall’altra voleva opporvisi.

Tra coloro che sostennero la tesi di Muthesius ci fu Emil Rathenau (1838-1915) che, dopo l’Exposition International d’Electricitè tenutasi a Parigi nel 1881, ottenne i diritti di sfruttamento dei brevetti Edison, tra i quali il sistema di illuminazione basato su lampadine a incandescenza. Questa impresa lo porterà a fondare, nel 1882 la Gelengenheits-Gesellschaft, società di studi sperimentali per i primi impianti, che nel 1887 diventerà la celebre azienda berlinese conosciuta in tutto il mondo con il marchio A.E.G.. Sul finire del secolo questa ditta arricchì il suo catalogo con ogni sorta di prodotti di consumo: lampade, ventilatori, orologi, elettrodomestici, ecc. Questi oggetti, non appartenendo alla vita quotidiana (poiché erano appena entrati in commercio), necessitavano di un’opera pubblicitaria che conferisse a tutta la produzione A.E.G. un’immagine unitaria. A tale scopo, nel 1907, fu chiamato come consulente artistico per la grafica e la comunicazione visiva Peter Behrens, che disegnò i manifesti per la pubblicità delle lampadine a filamento elettrico. La sua opera si estese ben presto all’architettura (nel 1909 progettò la fabbrica di materiali per l’alta tensione A.E.G. di Berlino) e al prodotto industriale (le famose lampade ad arco progettate per la stessa ditta), dando un eccellente esempio di simbolismo tecnologico lucidamente funzionale. I progetti di Behrens obbedivano alla logica seriale standardizzata necessaria alla produzione dell’A.E.G. e da ciò traevano un elevato contenuto tecnico e l’esteticità a lungo cercata nel rapporto tra la forma e la funzione. L’A.E.G. fu l’unica azienda in tutta Europa che riuscì a mettere a punto una strategia economica in cui industria ed arte furono presenti in egual misura, in tutte le fasi di produzione, rappresentando il modello guida per la progettazione formale della nuova natura industriale del prodotto.

   
Uscita nr. 68 del 20/08/2015