:: STORIA  
 

IL PIANO MARSHALL, L’EUROPA E LA GUERRA FREDDA
Gianfranco Coccia

     

 

 

La lunga e destruente guerra era finita. Interi territori, tra l’Europa e l’Estremo Oriente, erano stati devastati, molti, poi, morivano di fame nel cuore stesso del continente europeo. Tra militari e civili, circa 40 milioni di uomini erano morti a causa della guerra. In molti paesi si erano creati forti squilibri demografici, nel rapporto tra le varie classi di età e tra il numero degli uomini e delle donne.
Tutte le popolazioni erano in fermento. Accanto alle questioni territoriali, che allora si presentarono agli occhi delle nazioni vincitrici, vi erano questioni di non poco conto quali il riordinamento interno degli Stati coinvolti nel conflitto, della ricostruzione economica e della creazione di un nuovo sistema di rapporti internazionali.
La Germania era divisa, in parte occupata dagli eserciti anglo-franco americani, in parte da quello sovietico.
Secondo l’ormai corrente convincimento comune, l’U.R.S.S. di quegli anni si era proposta di imporre la propria leadership, politica economica e militare in tutte le aree dell’est europeo presidiate dalle proprie armate. In Grecia, ad esempio, si combatteva una cruenta guerra civile, in Turchia l’U.R.S.S. pretendeva di annettersi alcune province turche. La Gran Bretagna, uscita vincitrice dalla guerra, avrebbe avuto l’interesse e l’obbligo di assicurare la stabilità e la sicurezza del Continente, soprattutto della parte che era stata occupata dalle forze anglo-americane: ma era stremata.
Fu allora che il Ministro degli Esteri inglese Bevin si rivolse agli Americani esortandoli, in qualche modo, a prendere sulle loro spalle il peso e la responsabilità della ricostruzione.
Il punto essenziale per gli U.S.A., nei confronti dell’attuale situazione, è che, qualunque progetto venga redatto, esso tratti globalmente le esigenze dell’Europa, senza suddivisioni per tener conto di particolari fasi.” (1).
Politica che privilegiasse la produttività e considerazione ”regionale” dell’Ovest europeo costituirono le linee principali per il Piano Marshall che, pur considerando il loro semplicismo, favorirono una politica relativamente “coerente e sofisticata”.

Nel 1947 gli Stati Uniti si resero conto di trovarsi di fronte a questo drammatico dilemma: lasciare l’Europa al proprio destino o intervenire con un piano di aiuti.
L’analisi delle iniziative in materia di ripresa economica europea di cui disponeva il Segretario di Stato George Marshall allorquando tenne il famoso discorso all’Università di Harvard, evidenzia la carenza degli studi compiuti. Tra gli altri, uno studio eseguito dalla SWNCC (State, War, Navy Coordinating Commitee) per conto del Sottosegretario di Stato Dean Acheson evidenziava la propria assoluta incompletezza così pure un rapporto preliminare compiuto dallo stesso SWNCC giudicato dal comitato stesso molto incerto e carente di approfondita analisi (2).
Il successivo rapporto elaborato dal Policy Planning Staff (PPS) del Dipartimento di Stato del 23 maggio 1947, pur “prodotto frettolosamente” proponeva un’azione a breve termine ed una di lungo periodo così strutturato: nel breve, l’auspicio di un immediato avvio di un programma Coal for Europe destinato a migliorare la produzione nella Valle del Reno, in Germania e ad assicurare il suo sbocco nei luoghi di consumo in Europa; nel lungo periodo, un programma affidato all’iniziativa degli Europei.
Questo era lo stato dell’arte prima che Marshall tenesse il discorso   del   5   giugno   1947   ad  Harvard. Sorse subito un contrasto tra il Sotto Segretario per gli affari economici William L. Clayton e i redattori del piano PPS: in effetti Clayton preferiva un intervento economico made in USA in Europa con uno stanziamento di circa 5 miliardi di dollari affidati alla gestione di un Consiglio di Difesa Nazionale statunitense.
Malgrado la peculiare propria origine, il P.M. possedeva una visione politica coerente da cui emergevano due orientamenti principali (3): il primo derivava dalla concezione americana del collegamento stretto tra politica ed economia definita dal Maier la politica della produttività; il secondo risiedeva nella portata europea di questo intervento.
Quest’ultimo rappresentava il ritorno alla concezione politica di George F. Kennan e di altri che erano stati i primi sostenitori dell’accettazione di una franca divisione dell’Europa.
Politica delle produttività e considerazione del territorio “Europa Occidentale” furono le linee guida per tutto il periodo interessato dall’attuazione del P.M.
L’intervento   che   fu   annunciato   da   G.C.  Marshall   il  5 giugno 1947 in un discorso da questi pronunciato presso l’Harvard University, prese il nome di Piano Marshall: esso traeva spunto da alcune spiegazioni (4) che facevano riferimento al mancato accordo sulla Germania e sull’Austria durante la Conferenza di Mosca della primavera del ’47, spiegazioni che si riconducevano alle problematiche sorte dalla diversa interpretazione dell’accordo di Posdam da parte delle Quattro Potenze vincitrici sul come dovesse essere amministrato il territorio tedesco.
Il governo francese si era, infatti, opposto sin dal 1945 alla  creazione di Amministrazioni economiche tedesche centralizzate rendendo, così, impraticabile la concretizzazione di un controllo a quattro della Germania.
I rappresentanti del governo americano guardavano con sospetto gli intendimenti del governo sovietico non nascondendo una certa preoccupazione.
A questo punto si assiste all’appropriazione della produzione corrente tedesca nel bacino della Ruhr il che causa la contrazione del consumo interno e l’export a danno degli anglo-americani che non riescono a ridurre i costi della loro occupazione in Germania.
Dopo un’altalenante situazione che perdura per circa due anni,  vedi  tentativo   americano   di unire   le   Quattro  Forze occupanti in un progetto di unione economica (fallito per volontà di U.R.S.S. e Francia), vedi impossibilità di elaborare un piano triennale per rendere autosufficiente la bizona affidata agli anglo-statunitensi, vedi pericolo politico che gli americani si vedano accusati di privilegiare il riavviamento tedesco a danno della Francia, si arriva, appunto, al 1947.

Quando Marshall tenne quel discorso ad Harvard tutti i problemi europei erano sul tappeto ma non esisteva un vero e proprio piano d’intervento che potesse avere una chiara riconduzione al medesimo. Esistevano vaghe e generiche idee sul da farsi e di questo se ne rese conto il Sotto Segretario di Stato Clayton inviato in Europa per consultazioni verso la fine dello stesso mese di giugno. Tutto era imperniato sulla Germania e sul come coordinarsi con gli Inglesi. In effetti in terra americana era ritenuta molto importante la ripresa della Germania tant’è che, pur di risolverla positivamente, gli Stati Uniti erano arrivati ad impegnarsi a bilanciare le spese delle riparazioni esplicite dovute dalla Germania stessa con fondi da impiegare in quel paese e a ridurre le riparazioni implicite o “nascoste” fornendo contributi e prestiti ai Paesi che volevano continuare a comprare esportazioni tedesche sottocosto, inducendoli ad acquistarle ai valori di mercato.(5)
Da questo si può dedurre, secondo Gimbel (nell’op. cit.), che il Piano Marshall, una volta ben configurato, era tendenzialmente e strumentalmente volto ad inserire la ripresa economica tedesca nel quadro di un programma generale di ripresa europea allo scopo di conseguire, anche sul piano politico, la ripresa economica della Germania sia in Europa che negli U.S.A..
In quest’ultima analisi va, però, evidenziato, che il disegno politico americano era indirizzato al contenimento dell’espansionismo sovietico e di contrastare le iniziative dei vari partiti comunisti e movimenti di sinistra nel territorio europeo.
Così pure l’Amministrazione U.S.A. era preoccupata sul fronte domestico per il potenziale pericolo di una nuova depressione che potesse essere pari o superiore a quella del ’29. Di qui, conseguentemente, all’aspirazione di avere un sistema mondiale interdipendente di produzione e consumo tant’è che si era radicato in questa amministrazione la convinzione che esso fosse il più valido e convincente fondamento per la pace, per la prosperità e per un più elevato tenore di vita per tutti.(6)
Gli U.S.A. si preoccuparono, pertanto, di disegnare una ricostruzione dell’Europa senza ripetere gli errori di Versailles. In contrasto con l’U.R.S.S. espansionista che, invece, facendo, come dianzi si accennava, leva sui partiti comunisti esistenti fuori dall’U.R.S.S. cercava di attrarre sotto la propria influenza il maggior numero di paesi non solo del Vecchio Continente.
L’obiettivo economico del P.M. era quello di coprire mediante aiuti U.S.A. i disavanzi delle bilance dei pagamenti dei paesi europei in modo da evitare tensioni inflazionistiche a vantaggio del riavviamento del processo produttivo.
Il modello di crescita che gli Americani proponevano, aveva alla propria base una pianificazione sotto il profilo scientifico del lavoro così da renderlo in grado di aumentare il reddito nazionale e di rendere, quindi, meno grave i conflitti distributivi.
Il P.M. poggiava, in buona sostanza, non soltanto sull’invio dei fondi ma sui seguenti piloni portanti: trasferimento dei beni richiesti; supervisione e responsabilità U.S.A. dell’intero sistema di aiuti.
A seguito di questo, benché il Piano fosse multilaterale, vennero aperti uffici in ciascuno dei paesi che aderirono allo stesso, per negoziare la lista dei beni da inviarvi, sulla base di un piano quadriennale di crescita e di piani operativi annuali. I beni, che venivano reperiti e acquistati direttamente dagli Americani o sui loro mercati o sui mercati mondiali, venivano consegnati ai Governi dei Paesi aderenti al Piano Marshall senza pagamento. Questi governi ne organizzavano la vendita sui loro mercati nazionali, rientrando moneta locale, che doveva essere accumulata in un “fondo di contropartita” il cui utilizzo doveva esso pure essere concordato con gli U.S.A..
Gli americani elaborarono una visione globale – sia economica che politica – secondo una comune ottica di sviluppo dell’Occidente: una prospettiva nella quale politica ed economia avrebbero dovuto andare a braccetto tale da favorire la ricostruzione di qua e di là dell’Oceano Atlantico.(7)
Il mondo del dopoguerra segna la fine di quell’alleanza che aveva reso coevi paesi tanto diversi tra loro sotto tutti i profili nel disegno unitario di combattere contro l’asse Berlino – Tokyo e, nel periodo iniziale, Roma.
La storiografia ha convincentemente posto l’accento che nel secondo semestre del 1945, il governo americano aveva ritenuto le posizioni sovietiche nell’est europeo assumibili al modello delle democrazie occidentali. Tale visione si offuscò rapidamente acquisendo, invece, non solo la constatazione ma anche il timore dell’esatto contrario.

In effetti Stalin, direttamente o per il tramite dei partiti comunisti occidentali, aveva fatto nell’autunno del 1946 delineare questa inversione di tendenza. La risposta U.S.A. che incominciava a manifestarsi deve, dunque, essere ricondotta al timore di subire in Occidente la destabilizzazione, e viene, perciò, spiegata come ricerca di un risultato esattamente antitetico, cioè come ricerca di stabilità (8).
La svolta della politica americana verso l’U.R.S.S. si verifica già all’inizio del 1946: Truman, nella circostanza della crisi iraniana, aveva manifestato il chiaro convincimento che con i Sovietici ci volesse solo un pugno di ferro e un linguaggio duro. (9)
Nei primi mesi del ’46 si rafforza la rigida posizione U.S.A. di fronte il governo di Stalin specie ove si ponga mente alle note del noto consulente Clark Clifford che riteneva il marxismo come ideologia espansionistica e non come ideologia rivoluzionaria.
Clifford arrivava ad affermare che il governo sovietico era impegnato a rafforzare la potenza militare nell’ottica prospettica del conflitto inevitabile operando all’indebolimento e sovvertimento dei propri avversari utilizzando qualsiasi mezzo si rendesse disponibile.
Di qui l’iniziativa del Dipartimento di Stato di avviare nelle varie capitali sparse nel mondo una meticolosa revisione delle diverse situazioni nazionali producendo a getto continuo analisi, non sempre ottimistiche, sulle situazioni dei singoli teatri d’Europa – parte occidentale – e tutte indirizzate alla rimozione a monte della instabilità politica ed economica europea. Le news sul fronte Europeo riferivano ad una situazione desolante e scoraggiante tant’è che G. Marshall,
di ritorno dalla Conferenza di Mosca, convalidava la diagnosi  che La rinascita dell’Europa è assai più lenta di quanto ci si aspettasse. Elementi di disgregazione stanno diventando evidenti. Il paziente muore mentre i dottori decidono” e William Clayton sottolinea come “è evidente che abbiamo grossolanamente sottovalutato le distruzioni recate all’economia dalla guerra (…) La situazione europea peggiora ininterrottamente (…) Milioni di persone nelle città europee muoiono lentamente di fame  (…)  Senza immediato e sostanziale aiuto da parte degli Stati Uniti, l’Europa sarà sopraffatta    dalla   disintegrazione   economica,   sociale   e politica. (10).
Con la fine del conflitto mondiale, la grande alleanza tra U.S.A., Regno Unito, da una parte e U.R.S.S., dall’altra, era definitivamente cessata. Al suo posto subentrò quella che coniò il consigliere del Presidente Truman Bernard Baruch, poi battezzata dal giornalista americano Walter Lippmann come Guerra Fredda quanto a dire non guerra guerreggiata ma irriducibile ostilità tra due blocchi contrapposti di Stati. Sul mondo, come ebbe a dire Churchill, calò la cortina di ferro che partiva da Stettino ed arrivava a  Trieste.
Sul punto molti storici e politologi americani si sono contrapposti per giustificare le azioni del Governo U.S.A. dando spunto ad una ideologia alla Guerra Fredda.
Il risultato di quelle ricerche, pur con diverse accentuazioni, fu l’attribuzione all’Unione Sovietica della responsabilità del profondo distacco tra le due potenze che erano emerse dopo il conflitto. Secondo questo assunto gli U.S.A. non furono responsabili di tale accadimento ma anche impossibilitati ad impedirla.
Secondo Schlesinger (cfr. Elena Aga Rossi - a.c. di - Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda – pag. 15-29) “la G.F. avrebbe potuto essere evitata soltanto se l’Unione Sovietica non fosse stata ossessionata dalla convinzione sia dell’infallibilità del credo comunista  che dall’inevitabilità di un futuro mondo comunista”.
Del contrasto fra i due blocchi continuò ad essere uno dei teatri maggiori la Germania. Poiché l’U.R.S.S. procedeva a riorganizzare secondo le proprie vedute la Germania Orientale da essa occupata, le altre potenze occupanti si accinsero a fare altrettanto nella Germania Occidentale. Nel biennio 1948/49, si collegarono fra loro le tre zone con l’Unione doganale, la gestione interalleata della Ruhr e la riforma monetaria (marco occidentale), la quale ultima ebbe esito positivo; infine, i diversi paesi della Germania occidentale, ciascuno, dei quali aveva da tempo il suo governo e il suo parlamento costituirono nel maggio 1949 la Repubblica Federale.
A tale misura il Governo Sovietico si affrettò a reagire con il blocco di Berlino (giugno 1948), cioè della parte di Berlino occupata dagli occidentali: blocco destinato ad affamare la città e a destabilizzare la posizione degli occidentali nella capitale tedesca. Ma un gigantesco ponte aereo fece fallire il piano di Stalin. Anzi, durante il blocco, venne firmato a Washington il Patto Atlantico con il quale i Paesi aderenti si impegnavano ad appoggio reciproco contro aggressioni dando origine alla NATO (North Atlantic Treaty Organisation). Anche l’U.R.S.S. procedette (maggio ’48) nella zona orientale alla costituzione di un governo e di un parlamento, formalmente corrispondenti a quelli della Germania Occidentale, ma di fatto analoghi ai regimi dei paesi satelliti.
Questa fase della Guerra Fredda termina nel 1962.
Quella successiva va dal 1962 al 1973, cioè dalla crisi dei missili di Cuba all’inizio delle crisi determinate dagli shock petroliferi ed è collegata soprattutto al concetto di distensione e di ricerca di un nuovo ordine internazionale. In essa, superate alcune barriere dogmatiche e attenuatosi il modello dei blocchi, le principali finalità sono individuate: nel ricercare la limitazione del pericolo dell’olocausto nucleare e nell’assicurare la coesistenza tra gli opposti sistemi sociali.
La terza fase si svolge, attraverso il decennio della crisi economica che inizia nel 1973 fino alla disgregazione dell’U.R.S.S.. Lo shock economico, sociale e tecnologico apporta conseguenze politiche di notevole portata soprattutto perché la corsa agli armamenti che caratterizza ugualmente questo periodo aggrava le difficoltà economiche che colpiscono anche le due superpotenze e porteranno l’U.R.S.S., priva di reattive capacità economiche, verso la sua disgregazione.
 
Convenzionalmente, la fase della Guerra Fredda propriamente detta, si fa giungere sino al 1953, l’anno della morte di Stalin, per indicare il periodo in cui la tensione fra i due blocchi fu tanto acuta da non lasciare alcuno spazio al dialogo. Invece, le forze profonde che determinarono il contrasto Est-Ovest proiettarono la loro influenza ben oltre tale periodo: e infatti alla guerra fredda risale il tipo di mobilitazione ideologica e di approntamento militare che ha caratterizzato, nei decenni successivi, le relazioni Est-Ovest. Con la Guerra Fredda il vincolo di politica estera sulla vita dei singoli Stati, la subordinazione di ogni altra istanza all’esigenza di compattezza dei rispettivi blocchi assunsero un carattere “strutturale”. Molti dei nuovi fermenti che si erano manifestati dopo la guerra in campo politico, economico e culturale vennero ridimensionati. Risorse immense vennero profuse nella corsa agli armamenti e nella ricerca ai fini militari. Infine, mentre all’Est l’edificazione e la conservazione dei regimi comunisti si realizzarono anche a prezzo di sanguinose repressioni e di interventi armati, in Occidente si ebbe il paradosso di un’America., già paladina della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli, che si trovò, in nome della difesa del “mondo libero” ad appoggiare a volte anche regimi autoritari e corrotti.

 

(1) Cfr. Frus, 1947, III, pg. 285 citato da Charls M.Lain in Aga-Rossi E (pag. 48).
(2) John Gimbel, Le origine del piano Marshall, in Aga – Rossi E (a cura di), il Piano Marshall e l’Europa, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1983 pag. 15.
(3) Charles S. Maier (Il Piano Marshall e l’Europa in Aga – Rossi E, pag. 41).
(4) John Gimbel, op. citata.
(5) John Gimbel, (op. citata) pag. 21
(6) Gimbel (op. c. pag. 21)
(7) (Charles S. Maier – Aga – Rossi pag. 40).
(8) Ennio Di Nolfo (Il Piano Marshall e la Guerra Fredda, in Aga – Rossi E – pag. 28).
(9) Ennio Di Nolfo, op. c. pag. 28.
(10) Ennio Di Nolfo, id. pag. 30.

 

 

Uscita nr. 65 del 20/02/2015