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L’opera senza dubbio più importante della letteratura mesopotamica, l’ Epopea di Gilgamesh, ci è pervenuta, oltre che nella sua edizione principale, quella in dodici tavolette, per un totale di circa 3500 versi, scoperta nella biblioteca del re Assurbanipal (669-628 a.C.) e ora conservata al British Museum, anche in altre stesure più frammentarie, spesso parziali, ma notevolmente più antiche, sumeriche, ittite e hurrite, per cui oramai gli studiosi sono pressoché concordi nel ritenere che le sue origini risalgano almeno al 2100 a.C. benché tutti i vari elementi che la compongono siano stati magistralmente e definitivamente fusi fra loro, con un processo affine dunque alla formazione dell’Iliade e dell’Odissea, soltanto in seguito, in epoca babilonese. Non è il processo di genesi, tuttavia, il solo punto di contatto fra questo poema e quegli omerici: esso pure, giusto come accadde nell’Ellade alle vicende di Achille e di Ulisse, divenne per la sua gente una specie di Bibbia, il Libro per eccellenza, senza contare che con la Bibbia vera e propria poi condivide, a parte le evidenti somiglianze strutturali della versificazione, con i ritmi e i parallelismi tipici imputabili alla comune radice semitica, anche un affascinante resoconto del Diluvio Universale. E per chi storcerà il naso davanti a tali accostamenti, certo imponenti, ma piuttosto remoti nel tempo, ho un’ultima cartuccia da sparare: un valido autore sperimentale e all’avanguardia come Franco Battiato, per una sua recente composizione, è per l’appunto a Gilgamesh che si è ispirato.
Chi sia costui, ce lo dicono subito i versi iniziali: è un semidio, anzi persino qualcosa di più, perché un semidio è dio per metà, mentre Gilgamesh, il testo ci tiene a sottolinearlo, è dio per due terzi e uomo solo nel terzo restante. Inoltre, e subito scatta in noi il primo di una serie di innumerevoli richiami, è come l’eroe di Itaca provvisto di un multiforme ingegno e di un’esperienza guadagnata dolorosamente (“colui che tutto vide, fino ai confini della terra… che un lungo cammino percorse, affaticandosi e soffrendo…”). Infine, è un re, un re costruttore, che ha innalzato le grandiose mura della sua città, la sumera Uruk, sottoponendo però in questa attività il suo popolo ad un susseguirsi incessante e insopportabile, per dei semplici mortali, di fatiche e di corvées e, come se non bastasse, esercitando il proprio eccesso di energia e di vitalità anche… sulle suddite: se “non lascia il figlio al padre” per le proprie ambizioni architettoniche, parimenti “non lascia la vergine a sua madre, la moglie al suo signore”. Ben presto apparirà chiaro che è una hybris dovuta non a megalomania né a mera lussuria, quanto piuttosto al desiderio di acquisire quella sorta di immortalità che conferiscono l’impianto di edifici colossali o di una numerosa progenie: gli abitanti di Uruk in ogni caso sicuramente non sono in condizione di cogliere siffatte sottigliezze e, esasperati, rivolgono le loro proteste ed i loro lamenti agli dei perché alleggeriscano un giogo ormai intollerabile.
La preghiera viene accolta e Aruru, la stessa dea che ha generato Gilgamesh, è incaricata di creare un suo doppio, un avversario forte e prepotente come lui che contrastandolo lo tenga impegnato e in tal modo garantisca la tranquillità a tutti gli altri. Aruru, col gesto ingenuo e naturale di una massaia terrena, “si lava le mani”, quindi impasta dell’argilla, la getta nella steppa, ed ecco Enkidu, erculeo, villoso da capo a piedi come un animale e altrettanto selvaggio, o meglio selvatico: infatti pascola l’erba insieme alle gazzelle e coi suoi simili a quattro zampe si abbevera e sguazza allegramente nell’acqua, finché un giorno, proprio lì ad una sorgente, non lo vede un cacciatore che da qualche tempo, con sorpresa, trovava tutte le sue trappole inspiegabilmente buttate all’aria. Alla vista di quel gigante peloso il cacciatore si spaventa non poco e corre a chiedere consiglio prima a suo padre e poi a Gilgamesh in persona ed entrambi gli danno lo stesso suggerimento, quello di offrire allo strano mostro una prostituta che, per quanto egli sia forte, “grazie a una forza più grande”, ne avrà ragione e lo addomesticherà. Il cacciatore si apposta ad un pozzo con la prostituta prelevata apposta da Uruk e allorché il povero Enkidu appare davanti a questa trappola di nuovo genere, che si sfila la veste e gli mostra i seni e “il suo fiore”, naturalmente non ha scampo.
Gli abbracci durano sei giorni e sette notti, dopo i quali Enkidu fa un’amara scoperta: quando cerca di riunirsi ai suoi animali essi ormai lo fuggono, le gazzelle scorgendolo si allontanano da lui e lui non riesce a raggiungerle perché ha perso le risorse ferine di un tempo, le carezze scambiate con la ragazza lo hanno reso umano. Allora torna da lei, si siede ai suoi piedi e “la guarda in volto”. Sarà infatti proprio la prostituta, essa pure in qualche modo ingentilita, umanizzata dal loro rapporto, a sancire definitivamente la sua trasformazione, insegnandogli a vestirsi e a mangiare da essere civile e persuadendolo a seguirla ad Uruk dove potrà impiegare degnamente la sua forza contro quel nerboruto prepotente di Gilgamesh. Arrivano ad Uruk il giorno di Capodanno (dettaglio che scatena i folkloristi e gli etnologhi, già deliziati dalla contrapposizione fra due individui praticamente gemelli a parte l’abbondanza di pelo in uno di essi, insomma come Giacobbe e il setoloso Esaù e ora allertati dalla frequente comparsa, in certe festività popolari di tutto il mondo, del cosiddetto Impostore, appunto irsuto e selvaggio, che irrompe all’improvviso disturbando le cerimonie) e là, quando Gilgamesh ed Enkidu finalmente giungono alle mani, tutti possono constatare che l’arrogante re ha trovato l’antagonista che meritava, meno alto forse di lui, ma più tarchiato. Anche Gilgamesh se ne accorge e, benché non sia del tutto chiaro come ciò avvenga, visto che delle dodici tavolette questa è la più rovinata, ma probabilmente con quel meccanismo psicologico cui ci hanno abituato i film americani dove due contendenti di pari forza, dopo essersele suonate di santa ragione senza che nessuno di loro prevalga, finiscono per trasformare la rivalità in una fratellanza di sangue, egli ed Enkidu diventano amici per la pelle, un po’ come Achille e Patroclo e d’ora in poi anche compagni di avventura… sì, perché l’incorreggibile re di Uruk, pur avendo smesso di tormentare il suo popolo coi ciclopici propositi edilizi, continua ad inseguire l’immortalità, stavolta coll’ausilio delle gloriose imprese, progetta di raggiungere la Foresta dei Cedri e di uccidere il feroce mostro Humbaba, “il cui ruggito”, come gli racconta il riluttante Enkidu che Humbaba già lo ha veduto, “è l’uragano le cui narici sono fuoco, il cui occhio è morte” al punto che quest’antichissimo antenato di Medusa deve tenerlo coperto, quell’occhio letale, con ben sette veli. Niente riesce però a dissuadere dai suoi bellicosi disegni il cocciuto Gilgamesh: né i lamenti della madre divina (che, esattamente come Teti nel primo canto dell’Iliade, rimprovera il supremo dio della giustizia Shamash di averle dato un figlio “dal cuore troppo inquieto”), né i sogni di cattivo augurio che Enkidu fa di continuo; anzi egli prende in giro l’amico restio per i suoi timori, affermando orgogliosamente: “Se pure io cadessi, mi sarei fatto un nome! Un nome che non svanisca voglio farmi!”
Insomma in quel giardino descritto con suggestive cadenze di favola che è la Foresta, o la Montagna, dei Cedri e dopo il furioso combattimento che ci si poteva aspettare, Humbaba viene abbattuto, ma mentre finito lo scontro Gilgamesh si lava e si riassetta, la dea Ishtar in persona, dimostrando per l’ennesima volta che le donne, anche se dee, persino ai tempi di Nabucodonosor, sotto sotto sono sempre attratte dai vincenti, conquistata dalla bellezza dell’eroe gli si fa incontro allettandolo con ogni sorta di promesse: se diverrà il suo amante avrà fra l’altro un carro di lapislazzuli e d’oro, quando entrerà nella loro dimora i profumi lo avvolgeranno e soglia e pavimento gli baceranno i piedi, le sue capre avranno parti trigemini e i suoi cavalli da corsa vinceranno tutte le gare… Ma Gilgamesh la respinge con brutalità, rinfacciandole di avere sempre tradito i suoi compagni di letto, addirittura forse tramutandoli in bestie (prima incarnazione mondiale del mito di Circe ed esatto rovescio della gentile prostituta di Uruk che in Enkidu ha prodotto la trasformazione opposta) e poi rovinandoli ulteriormente con lo strappare al variopinto uccellino le ali, affossando in “sette più sette pozzi” il possente leone e piegando agli sproni e alla frusta il focoso stallone: “Tu non sei che un braciere che nel freddo si spegne, una porta del retro che non ripara dalla tormenta, un riparo che crolla, un turbante che non copre, pece che sporca, otre che gocciola, scarpa che punge…” Furente per essere stata respinta e per di più con una simile caterva di insulti, Ishtar manda contro i due eroi lo spaventoso Toro Celeste, ma anche questo viene ucciso e, supremo oltraggio, il non ancora abbastanza dirozzato Enkidu gliene scaglia in faccia una zampa, rimpiangendo di non poter squartare nella stessa maniera anche lei. Alla divinità offesa non rimane che rivolgersi, invocando un’adeguata punizione, ai numi suoi colleghi, i quali, dopo una disamina burrascosa e forse non del tutto equa dei fatti, decidono che il più colpevole è Enkidu e quindi è su di lui che, preceduta al solito da incubi di significato angoscioso, piomba la morte. Nelle ultime ore della sua esistenza, piene di cupi presentimenti, egli rivede con la memoria la steppa della sua giovinezza e se dapprincipio impreca amaramente contro il cacciatore e la ragazza iniziali responsabili del suo triste stato presente, poi invece, con più matura consapevolezza, li benedice, perché, qualunque sia stato il prezzo da pagare in cambio, comprende che solo per merito loro ha trovato, oltre alla civiltà, anche la grande avventura nella Foresta dei Cedri e soprattutto il dono più prezioso, la sua amicizia con Gilgamesh.
La metamorfosi del primitivo mostro villoso non poteva essere più completa, ma questo certo non consola Gilgamesh, il quale, davanti al cadavere del suo adorato Enkidu, prorompe in accenti di incredulità e di dolore che giustamente ad un lettore raffinato quale Franco Fortini hanno ricordato il pianto di Achille su Patroclo, perché, proprio come Achille, Gilgamesh piange non solo la fine precoce dell’amico, ma anche in anticipo la propria e, starei per aggiungere, persino la nostra, tanto a questo punto della narrazione il plurimillenario poema si rivela ancora attuale, universale, incandescente. Gilgamesh non può sopportare l’idea che anche lui diverrà così freddo, così inanimato e stavolta non è, come in passato, all’immortalità simbolica data dalle immani costruzioni o dalle eroiche imprese che aspira, ma a quella letterale, del corpo, della persona, quella di cui, ora se ne ricorda, uno almeno, un suo antenato, Utnapishtim, pare abbia trovato il segreto. Risolve dunque di andarlo a cercare, ma non sarà un viaggio semplice, anzi -e non è un gioco di parole - sarà praticamente un’Odissea. Nella queste egli incontrerà i terrificanti Uomini Scorpione, percorrerà la lunghissima tenebrosa galleria che è il sentiero sotterraneo del Sole, vedrà un giardino incantato fiorito di pietre preziose, sarà ospitato nella locanda di una specie di Calipso, la dea pesce Siduri, che, dapprima diffidente poi benevola, lo esorterà invano a lasciar perdere l’immortalità ed a pensare piuttosto a godersela finché è in tempo ed infine, ormai emaciato e consunto, attraverserà col nocchiero Urshanabi l’Oceano della Morte, cambiando remo ad ogni vogata giacché basterebbe il contatto con una sola goccia di quell’acqua ad ucciderlo e solo dopo centoventi cambi di remi, in un’atmosfera ovattata e boreale quasi da Estrema Thule, si troverà faccia a faccia col suo avo.
Utnapishtim è il Noé babilonese, sopravvissuto lui pure al Diluvio grazie ad un’arca costruita seguendo, nel vero senso della parola, una soffiata del dio Ea che gli ha trasmesso avvisaglie e misure (fra parentesi non collimanti, queste ultime, con quelle, puntigliosissime, della Bibbia) appunto in una folata di vento fra i cannicci della capanna. La descrizione del cataclisma è grandiosa e davvero impressionante: fulgore di lampi e poi tenebre fitte, l’ampia terra che si infrange come un vaso, gli dei che si accovacciano atterriti come cani e si lamentano come partorienti, i cadaveri che riempiono il mare galleggiando come uova di pesce. Solamente al settimo giorno l’uragano si placa. Allora, ricorda il vegliardo, “Aprii un boccaporto, e una luce mi venne sul volto. Mi inchinai, mi sedetti e piansi.” Anche qui vengono in successione liberate una colomba ed una rondine, che tornano ed un corvo che non torna, perché trova da mangiare e dove posarsi. Al sacrificio di ringraziamento del superstite partecipano tutti gli dei e decidono che lui e la sua sposa d’ora in poi saranno come loro e vivranno in eterno nella lontana regione “alla Foce dei Fiumi”. Con questo racconto, l’antenato cerca di far comprendere a Gilgamesh che il suo è stato un caso speciale, una grazia particolare che non si ripeterà e che la morte è un destino comune al quale egli pure dovrà rassegnarsi. L’eroe però insiste ed allora Utnapishtim gli propone una sorta di prova: Gilgamesh, per dimostrarsi degno, non dovrà dormire per sei giorni e sei notti, esperimento che, il vecchio lo sa bene, fallirà subito: infatti Gilgamesh si è appena seduto che si addormenta di schianto e Utnapishtim lo indica alla moglie con ironia mentre la donna, più sensibile, ne prova invece una grande pietà. Quando dopo sette giorni Gilgamesh si sveglia, sulle prime non crede di avere dormito, non così a lungo almeno, ma lo smentiscono, in diverso stato di conservazione accanto al suo giaciglio, le sette pagnotte che, una al giorno, la moglie di Utnapishtim ha infornato per lui e che ora gli serviranno per il viaggio di ritorno. Di ritorno però a mani vuote lui non vuole sentirne parlare, grida drammaticamente:”La morte è nella mia camera da letto!” e si dispera finché, sempre per l’intercessione della dama dal cuore tenero, il vecchio non concede una specie di premio di consolazione, facendogli cogliere dal fondo del mare una pianta spinosa e molto pungente, che non dà l’immortalità, ma se non altro restituisce la giovinezza. Sulla barca che lo riporta indietro l’eroe alquanto pacificato decanta al nocchiero Urshanabi, che lo ascolta in sinistro silenzio, le proprietà di quell’erba e già pregusta quando, arrivato ad Uruk, ne mangerà e recupererà le sembianze e le forze del passato. Inutile dire che, come avviene in molte altre storie di altre epoche e di altri paesi, ad un’incauta sosta presso una fontana, il solito serpente, fiutata la magica fragranza della pianta, la ruba e si allontana “perdendo la spoglia”, cioè mutando ringiovanito la pelle, cosicché al deluso Gilgamesh non rimane che rientrare nella sua città ed intraprendere nuove costruzioni, anche se oramai ci viene da pensare che non si tratterà più di enormi bastioni inutili contro un nemico invincibile, ma piuttosto di tombe, di immensi mausolei, eretti su un sogno impossibile.
Il fatto che la vicenda termini con Gilgamesh costruttore esattamente com’era iniziata, in una raffinata e modernissima composizione ad anello, insinua sottilmente che tutto quel penare, tutto quel vagare avvenuti nel mezzo, alla fin fine, sono risultati vani, anzi in un certo senso è come se non fossero nemmeno mai esistiti. Eppure noi sappiamo che non è così. L’acuta percezione che la paura e la speranza, dal 2000 a.C. al 2000 d.C., siano sempre le stesse, ci insegna una dolorosa solidarietà umana che, se non è un rimedio radicale, è pur sempre un leggero balsamo. Allora come oggi, nelle nostre metropoli come ad Uruk, un’unica morte ci bracca, ma unica è anche la musica che a tratti ce ne distoglie, sia che ci giunga dalla radio del bar sotto casa, sia che ci arrivi da immense distanze, dal fondo dei secoli, da un posto remoto, laggiù, super flumina Babyloniae.
***Naturalmente, non essendo purtroppo un assiriologo, ho dovuto, nella stesura di queste pagine, avvalermi delle opere di tutta una serie di illustri studiosi, le cui versioni ho manipolato e mescolato fra loro appassionatamente, confidando che Giorgio Castellino, Alfonso Di Nola, Will Durant, Giuseppe Furlani, Theodor Gaster, Samuel Noah Kramer, A. L. Oppenheim e Giovanni Rinaldi saranno indulgenti con chi, pur non possedendo le loro cognizioni, con loro almeno condivide, a modo suo, da volenteroso ficcanaso, l’ammirazione e l’amore per uno dei testi più straordinari che esistano al mondo.
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