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Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento si impose all’attenzione del mondo artistico italiano ed europeo un personaggio che, con la sua esclusiva visione della pittura, provocò una vera e propria rivoluzione stilistica. Infatti con Caravaggio l’osservazione e la fedele rappresentazione della realtà quotidiana assunsero ben presto una amplissima rilevanza; il linguaggio del naturalismo, che dette inizio ad un nuovo corso della pittura moderna, divenne espressione e allo stesso tempo emulazione in tutta Europa. Pochi pittori esercitarono un’influenza paragonabile alla sua per vastità e intensità. L’opera del Caravaggio fu studiata da numerosi artisti italiani e stranieri, soprattutto nei due decenni successivi alla sua morte durante i quali anche i grandi collezionisti se ne contesero i dipinti. Tuttavia, l’assenza di una scuola costituita rese ovviamente molto eterogeneo il gruppo dei pittori attratti dal naturalismo e dalle novità iconografiche e formali espresse dell’artista lombardo e si passò quindi, da una sostanziale comprensione dell’opera di Caravaggio, a esecuzioni superficiali ed esteriori che in alcuni casi rendono banali i contenuti e i temi originariamente proposti dal grande pittore. Vissuto, come i Carracci, a cavallo dei due secoli, Caravaggio fu erede della tradizione cinquecentesca e, al tempo stesso, aprì una nuova via all’arte. La sua evoluzione artistica è racchiusa in soli diciotto anni di attività, durante i quali si rilevano continui e sostanziali mutamenti stilistici. Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con la stessa decisione e con il medesimo coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Il suo interesse dominante fu il problema esistenziale dell’uomo, il suo dramma nella ricerca della verità che non è mai imposta dall’alto nè passivamente accettata.
Tema della sua pittura fu dunque la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio privo di contraddizioni, dove luce ed ombra sono le protagoniste assolute delle sue due vite, quella di uomo e quella del pittore. La sua breve esistenza è quella che oggi verrebbe definita come una vita violenta: la sua ribellione contro la società lo portò fuori della legge e lo emarginò come individuo, sebbene riscuotesse grandissimo apprezzamento in alcuni ambienti artistici che seppero comprendere la portata rivoluzionaria della sua opera.
Nel 1592 il giovane Michelangelo Merisi da Caravaggio, luogo di provenienza della sua famiglia, si trasferì a Roma. Benché gli anni della prima formazione rimangano ancora avvolti nell’incertezza, emergono alcuni dati sicuri. Il padre esercitava, seppure modestamente, il mestiere di architetto e l’ancora adolescente Michelangelo venne mandato a bottega a Milano da Simone Petrazzo, un artista veneto che ne seguì la prima formazione. Nel periodo lombardo, ebbe modo di conoscere il naturalismo di alcuni pittori cremonesi come Antonio e Vincenzo Campi e l’intera tradizione lombarda del Cinquecento che lo portò a privilegiare la visione degli eventi colti nella loro immediata concretezza piuttosto che preferire la dimensione remota e idealizzata sulla quale poggiava la pittura di quel secolo.
Più tardi, dopo il suo arrivo a Roma, lavorò per un breve periodo nella bottega del Cavalier d’Arpino, giovane e colto pittore alla moda, tra gli ultimi esponenti della cultura tardo manierista. Presto Caravaggio, deciso a star da se stesso, si staccò dall’orbita di d’Arpino per maturare uno stile proprio, geniale e rivoluzionario. Intorno al 1596 iniziò a lavorare nel palazzo del suo primo vero mecenate: il cardinale Francesco Maria Del Monte. Protettore degli affari del granduca di Toscana, raffinato intellettuale e influente nella curia romana, il cardinale introdusse il nuovo protetto nella sua cerchia culturale, lo fece conoscere anche fuori Roma e più tardi ne caldeggiò la candidatura per la prima grande commissione pubblica, la cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Ma soprattutto fu un appassionato collezionista delle opere del pittore; quando morì, il 27 di agosto 1626, la sua raccolta includeva otto tele caravaggesche. E’ dunque ipotizzabile che proprio il gusto del cardinale, suo protettore e principale committente, abbia avuto un’importanza determinante per l’evoluzione stilistica del giovane Caravaggio.
Le tematiche ricorrenti nelle pitture eseguite per il cardinale Del Monte sono quelle dei compositi significati della realtà e della natura, non soltanto per la loro evidente espressività, essendo infatti pregne di ulteriori significati che alludono ad una realtà più sfuggente e profonda, quella dei simboli.
Negli ultimi anni del Cinquecento il Caravaggio, pur restando ospite del cardinale Del Monte, allargò notevolmente il suo giro di committenti che includeva i potenti Doria e i Giustiniani insieme ad alcuni altri accorti collezionisti. La prova della completa affermazione del pittore sta nel fatto che, abbandonate le piccole tele di carattere simbolico destinate a una cerchia ristretta di intenditori, si cimentò nei dipinti di grande formato a carattere sacro, come Il riposo nella fuga in Egitto della Galleria Doria Panphili a Roma, e nei quadri d’azione, la Giuditta e Oloferne della Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma.
Le opere di questo periodo, dalla notevole complessità esecutiva, dimostrano la raggiunta maturità artistica e le accresciute ambizioni del Caravaggio, testimoniate dalle prime prese di posizione all’interno del dibattito teorico. Nei simboli e significati celati nel dipinto nel ragazzo morso da un ramarro gli studiosi sono impegnati da tempo in un accesa discussione sia per questioni di autenticità, ma essa pare ora ampiamente accettata, sia a proposito del significato e delle allusioni simboliche. Dello stesso soggetto esistono due esemplari simili, conservati alla fondazione Longhi di Firenze e alla National Gallery di Londra. L’opera risale ai primi anni romani ed è menzionata da Giulio Mancini, storico del Seicento..in questo tempo fece per monsignor Pandolfo Pucci alcune copie di devozione e, per vendere, un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano… .
Come altre opere giovanili eseguite allo specchio, anche questo dipinto potrebbe raffigurare un suo autoritratto nelle visti del giovane ferito. Il soggetto allude chiaramente ad un significato ulteriore, al di là di quello apparente e l’interpretazione che ne è stata data dalla critica è molto ampia e discorde. Si è pensato all’allegoria del tatto o del fuoco, a un’allegoria del temperamento collerico oppure ad una sorta di ammonimento sull’incertezza della vita. Nonostante l’accanita applicazione degli studiosi, l’opera rimane ancora oggi avvolta in un alone di mistero e di ambiguità.
Con l’acquisizione della commessa ottenuta grazie ai favori dal cardinale Contarelli in San Luigi dei Francesi, Caravaggio dà inizio alla fase delle opere pubbliche, non più confinate entro la ristretta cerchia del collezionismo privato. Contemporaneamente a questa commissione, riceve dal tesoriere papale, monsignor Tiberio Cerasi, l’incarico di dipingere due tele per le pareti della cappella di famiglia raffiguranti la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro.
Riguardo alla realizzazione di queste due stupende opere, che si possono ammirare a Roma nella chiesa di Santa Maria del Popolo, vale la pena fare menzione di un curioso retroscena ancor oggi non del tutto svelato. Come dicevamo, Tiberio Cerasi, tesoriere di Clemente VIII e grande amico di Federico Borromeo, il 24 settembre del 1600, anno giubilare, commissionò al Caravaggio i due quadri per la cappella di famiglia. La commissione doveva essere molto dettagliata se è vero che nel contratto si specificava che il supporto doveva essere una tavola di legno di cipresso e che il pittore era tenuto a mostrare un bozzetto prima di passare all’opera definitiva. Il 3 maggio 1601, però, Tiberio Cerasi moriva lasciando suo erede universale l’Ospedale di Santa Maria della Consolazione. Cosa sia accaduto a quel punto non è stato mai chiarito. Le due tavole forse vennero respinte dalla famiglia Cerasi, oppure giudicate inadeguate dallo stesso artista? Fatto sta che Caravaggio si rimise all’opera, realizzando in breve tempo i due dipinti su tela che oggi sono ancora al loro posto originario a Santa Maria del Popolo. Le due tavole, diciamo bocciate, vennero acquistate dal cardinale Giacomo Sannesio, delle cui raccolte dà testimonianza il Baglione noto soprattutto per aver scritto le vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642. Le due opere andarono poi vendute ad un non meglio precisato gentiluomo spagnolo. Della Crocifissione di san Pietro si sono perse le tracce, forse fu perduta in un incendio, mentre la Conversione di Saulo, passando per Genova grazie a un’eredità, arrivò a Roma nel palazzo Odescalchi.
Caravaggio non era certo un uomo facile e a nulla valse il grande successo ottenuto dalle sue grandiose opere, come la Vocazione di San Matteo in San Luigi dei Francesi o la stupenda raffigurazione della Morte della Vergine in Santa Maria in Trastevere - tanto per citarne solo alcune per le quali riscosse l’ammirazione del pubblico che a Roma contava davvero - a smussare in qualche modo quel misterioso temperamento rissoso e turbolento, incline a rispondere con la violenza a sgarberie vere o presunte. Egli si lasciò coinvolgere in risse e aggressioni mettendo spesso a dura prova la benevolenza dei suoi protettori.
La vicenda più famosa che lo vide protagonista insieme agli amici Onorio Longhi, Orazio Gentileschi e Filippo Trisegni e suscitò scandalo e pettegolezzi, fu il processo intentatogli proprio dal pittore e biografo Giovanni Baglione, nel 1603, per aver diffuso su di lui alcuni versetti satirici diffamatori. Il Caravaggio infatti non gradiva che il concorrente, lo imitasse e il Baglione, dopo aver abbandonato il suo stile tardo manierista, dipinse alcune tele, in particolare una Resurrezione esposta nella chiesa del Gesù, imitando lo stile caravaggesco.
La causa ben presto travalicò l’oggetto della discussione per inoltrarsi in reciproche accuse scaturite da invidie e scorrettezze sul piano professionale. In mancanza di scritti lasciatici dal Caravaggio, l’interrogatorio del processo è l’unica testimonianza in nostro possesso. Da questa polemica nacque la leggenda del pittore maledetto che gli scrittori del Seicento, in genere malevoli nei suoi confronti, provvidero ad alimentare.
Nei documenti degli anni successivi, l’artista appare sempre più spesso coinvolto in alterchi con ufficiali dell’ordine pubblico e in pericolosi duelli, fino ad arrivare al grave fatto si sangue avvenuto a Roma in Campo Marzio nel 1600 per una questione di gioco sorta tra bande. Caravaggio, al capo di una delle ghenghe, uccise il capo rivale, Ranuccio Tommasini da Terni, e, ferito a sua volta, si dette alla fuga, allontanandosi per sempre da Roma. Si rifugiò nei feudi laziali del suo protettore Maurizio Colonna. Da quel momento ebbe inizio la tragica odissea degli ultimi anni di Caravaggio che, continuamente fuggiasco da Napoli a Malta e poi nuovamente a Napoli, giunse infine sulla spiaggia di Feniglia, nei pressi di Porto Ercole, dove si spense l’8 di Luglio del 1610 ormai consumato dalla sifilide.
Per ironia della sorte la data della sua morte coincise con quella dell’ottenimento della tanto sperata grazia.
Il frenetico fuggire da un luogo all’altro, braccato come una preda, non ostacolò mai la sua vena creativa; in ogni località dove soggiornò durante la sua fuga ebbe modo di lasciare numerose opere che furono fonte di grande ispirazione per pittori locali.
Caravaggio, a differenza di artisti come Dalì e Magritte, per fare qualche esempio, non racchiuse la sua follia dentro le sue opere; essa straripò nella sua esistenza come un’onda inarrestabile che travolse ogni cosa della sua vita. L’estenuante ricerca di una tragica verità, che sentiva presente nella sua anima e per la quale ottenebrò ogni alternativa esistenziale, lo trasformò in un implacabile giudice di se stesso. E mentre la sua vita si edificava su una irrefrenabile volontà distruttiva, la sua arte si impregnava sempre più di un dramma morale e allo stesso tempo di un sentimento di colpa, forse causa della sua sconcertante incapacità di discernere bene e male. Emblematico risulta quel suo autoritratto presente nel dipinto, ora a Dublino, della Cattura di Cristo, dove compare mentre solleva la lampada come a dare luce al misfatto della delazione che inchioda il traditore al propria iniquità.
Ma è il nel Davide e Golia, forse il suo ultimo dipinto prima della morte, la perfetta raffigurazione di quell’animo perpetuamente in conflitto con se stesso. In questa straordinaria tela Caravaggio è sia il carnefice che la vittima, affidando a Davide il nobile sentimento della compassione e a Golia un’ineluttabile maschera di sofferenza.
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