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Raffaello Sanzio, Incontro di Leone Magno con Attila, 1514, affresco di una delle lunette nella Stanza di Eliodoro, Musei Vaticani, Roma
Esiste un legame molto antico tra le genti che popolavano la Germania nei primi secoli dopo Cristo e la cultura latina. I destini di queste due tradizioni cominciarono ad intrecciarsi nel periodo in cui il sole stava per tramontare sullo sconfinato Impero Romano. Io stessa penso di aver subito quell’attrazione particolare e, in un certo modo, inquietante che provarono i Romani nel momento in cui avvenne l’impatto iniziale tra le due civiltà. La profonda differenza che esiste tra la cultura latina e quella teutonica, generando una potente attrazione tra i due poli di segno opposto, agisce secondo il principio della calamita. Lo scontro fu feroce e per molti secoli i generali romani cercarono di sconfiggere il nemico, invaderne il territorio e sottometterne le popolazioni. Ma i Germani non concedevano vittorie clamorose e non indietreggiavano facilmente: resistendo ostinatamente alla potenza della grande civiltà romana dimostrarono agli eserciti latini che una soluzione alla “Veni, vidi, vici” non era cosa da sperare nella loro impervia regione.
Sono infatti le tenebrose foreste e le insidiose paludi disseminate in tutto il territorio germanico, a destare paura e sconcerto negli animi dei legionari impegnati in lunghe e difficili campagne militari. Non è, beninteso, soltanto una questione di turbamento indotto dall’immersione totale e prolungata in luoghi sinistri e selvaggi, percepiti come la negazione stessa dell’ideale di paesaggio “rassicurante” e “bello” perché plasmato dall’uomo. In gioco c’è molto di più: in quel cupo scenario silvo-palustre, infatti, i Germani attuano una guerriglia fatta di tranelli e imboscate, di assalti improvvisi e repentine fughe; di fronte ad una simile tattica, che si fonda su una perfetta conoscenza e pratica dei luoghi, i Romani cadono in preda ad un vero e proprio terrore, accresciuto anche dalla minacciosa imponenza e prestanza fisica degli avversari. Non è difficile mettersi nei panni di quei soldati: ogni roccia, ogni albero può celare un guerriero nemico, ogni acquitrino può rivelarsi una trappola mortale. Un celeberrimo evento può descrivere, meglio di qualsiasi altro, le ragioni dello sgomento che coglie i legionari a contatto con l’inquietante paesaggio germanico: è la disastrosa disfatta subita nel 9 d.C. da Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo, quando ben tre legioni caddero in un’imboscata e furono completamente annientate in mezzo a foreste e paludi.
Poco meno di un secolo dopo questa catastrofica sconfitta, lo storico romano Publio Cornelio Tacito scrisse il famoso trattato etnografico “De origine et situ Germanorum”, meglio conosciuto con il titolo “Germania”. Le preziose informazioni riguardo al clima, alla conformazione geografica e alle tecniche di guerriglia delle popolazioni teutoniche tramandateci da questo scritto, non rappresentano il frutto di un’osservazione diretta ma provengono da una fonte storica anteriore, l’opera di Plinio il Vecchio “Bella Germaniae”. Per questo motivo nel manoscritto tacitiano possono essere rintracciate un certo numero di notizie anacronistiche, riferite alla situazione geopolitica dell’area germanica antecedente all’avanzata dei Flavi oltre il Reno e i Danubio. Nonostante ciò, il testo di Tacito rimane un contributo fondamentale allo studio dell’etnografia, poiché fornisce una serie d’indizi per ricostruire verosimilmente l’idea che del barbaro nordico aveva un romano. A questo punto, bisognerebbe aprire una piccola parentesi sul determinismo ambientale, di cui molti autori antichi, sia greci che latini, si occuparono. Ma il discorso diventerebbe assai lungo e fuorviante. Al riguardo basti sapere alcune fondamentali regole. Prima fra tutte la teoria, diffusissima, che i fattori ambientali condizionano la situazione fisiologica dell’uomo, favorendone l’equilibrio (cioè promuovendone la salute) o, al contrario, producendovi uno scompenso, determinando così la malattia. In altre parole, si potrebbe dire che nelle regioni miti e temperate crescono individui sani ed equilibrati, mentre dove il clima è più ostile e le temperature troppo calde o troppo fredde, la struttura fisica e l’animo degli uomini subiscono degenerazioni. Secondo questa credenza, le popolazioni asiatiche e africane avrebbero sviluppato corporature asciutte (o secche, in senso dispregiativo) a causa del tremendo caldo e del sole cocente che asciuga e secca ogni cosa, dal terreno agli esseri viventi. Inoltre, si riteneva che questi fattori climatici fossero la causa dell’indole vile ed effeminata degli asiatici: la pigrizia sarebbe dovuta al caldo, mentre l’uniformità delle stagioni provocherebbe la mancanza di coraggio. Poiché non esiste grande differenza tra le stagioni, che sono tutte similmente calde e afose, non si producono quegli stimoli intensi e violenti della mente e neppure quella forte alterazione del corpo, in conseguenza dei quali è naturale che il temperamento diventi più selvatico e acquisti irriflessività, durezza e coraggio in misura maggiore rispetto a chi vive in condizioni sempre uguali. Insomma, i barbari asiatici erano simili alle donne (affermazione considerata un gravissimo insulto!) poiché conducevano una vita pigra e sedentaria, al chiuso e all’ombra, che li riduceva, come le donne, ad essere eccessivamente pallidi, deboli e molli. Tali uomini, pertanto, non potevano essere considerati un avversario temibile, un’autentica minaccia per gli intrepidi e virili soldati greci, e poi romani. Un altro, determinante, fattore da considerare è il ruolo svolto dall’ambiente. Un famoso episodio, narrato alla conclusione del nono libro delle Storie di Erodoto, introduce chiaramente questo argomento. I Persiani avrebbero un giorno proposto a Ciro il grande un’emigrazione di massa dalla terra che allora essi occupavano, angusta e aspra, ad un’altra terra più amena, approfittando del fatto che in quel momento dominavano su gran parte dell’Asia e avevano quindi ampia possibilità di scegliere la regione più adatta.
Ma Ciro, udito ciò e senza mostrare di meravigliarsi per la proposta, l‘invitò a farlo, ma li ammonì a prepararsi a non essere più dominatori, ma dominati: dai luoghi molli son soliti nascere uomini molli, perché non è di una stessa terra produrre frutti meravigliosi e uomini valorosi in guerra. Sicchè i Persiani ricredutisi si allontanarono, convinti dal parere di Ciro, e preferirono dominare abitando una misera terra infeconda piuttosto che, coltivando fertili pianure, essere schiavi di altri.
Infatti, una regione favorita da un ottimo clima e coperta da una fitta vegetazione, ricca di animali floridi e prolifici, dotata di un suolo fertile e di prodotti e risorse abbondanti e magnifici, non potrà mai generare uomini forti e resistenti alle fatiche, né indomiti e valorosi combattenti nelle guerre. Come a dire che se una madre vizia e protegge eccessivamente i suoi figli, questi non potranno mai diventare dei veri uomini. Per contro a tutto ciò, i popoli nordici dovevano essere dunque plasmati dal clima gelido e ventoso e dall’ambiente assolutamente indomabile e inadatto tanto all’allevamento quanto all’agricoltura. Queste condizioni, secondo Vitruvio, avrebbero determinato l’enorme e possente corporatura, la carnagione molto chiara, i capelli lisci e fulvi e gli occhi azzurri di queste popolazioni. Plinio il Vecchio attribuisce agli abitanti dei paesi settentrionali pelle bianchissima, glaciale, e lunghi capelli biondi. Costituzione poderosa, colorito pallido (o arrossato dal freddo), occhi chiari dalla luce torva, lunghi capelli lisci e rossicci (o biondi), voce profonda: questi sono gli elementi che distinguono gli uomini del Nord. Per le stesse ragioni indicate poco sopra, quando l’età era adatta per combattere e l’asprezza del luogo aveva temprato a dovere i corpi e gli animi, i giovani di queste popolazioni si rivelavano arditi e impavidi, incredibilmente resistenti alle fatiche e del tutto immuni alla paura. Tacito scriveva: «Sul campo di battaglia per il capo è vergognoso essere superato in valore, per il seguito non eguagliare il valore del capo. Costituisce poi infamia e vituperio ritornare salvi dalla battaglia senza di lui; difenderlo, vegliare sulla sua sicurezza, ascrivere a gloria sua anche i propri atti di coraggio è estremo dovere: i capi lottano per la vittoria, il seguito per il capo».
Il quadro è finalmente chiaro: non è difficile capire come l’insieme di questi fattori (luoghi spaventosi e inaccessibili, corporature smisurate, atteggiamento brutale e feroce dei suoi abitanti) abbiano generato il terrore e lo sgomento nei Romani che vennero a contatto con questi misteriosi personaggi per esperienza diretta o per sentito dire. Nonostante ciò, le medesime caratteristiche suscitarono sentimenti molto contrastanti tra i membri della classe senatoria e dell’opinione pubblica conservatrice, che desideravano ardentemente una rigenerazione morale e politica nel periodo in cui la monarchia degenerò più volte in tirannide e molti rimpiangevano amaramente l’ormai perduta Repubblica. Si diffuse quindi una corrente di pensiero che scorgeva nell’indole del fiero popolo germanico la restaurazione del mos maiorum e, per un certo periodo, sentimenti quali il fascino e l’ammirazione presero il sopravvento. Generali e condottieri al servizio degli imperatori furono scelti sempre più spesso tra i giovani delle famiglie germaniche provenienti dalle regioni ormai conquistate. L’osmosi già in atto tra le due culture fu accelerata da questa tendenza, che portò molti barbari a “trasferirsi” entro i confini dell’Impero.
Così cominciarono le grandi migrazioni e, mentre il declino di Roma era ormai inarrestabile, il prestigio di alcuni generali stranieri cresceva, insieme al potere politico e militare di queste popolazioni. Dal III secolo d.C. molteplici etnie barbare, provenienti da ogni angolo dell’Europa, invasero a più riprese l’Impero romano, tanto da spostarne il baricentro verso Oriente, a Costantinopoli. Il germanico Odoacre, generale dell’esercito romano, nel 476 depose e relegò in una villa presso Napoli l’ultimo Imperatore, il giovanissimo Romolo Augustolo. Ebbe dunque inizio il lungo periodo di transizione che segnò il passaggio dalla struttura politica imperiale a quella delle monarchie barbariche, dall’universalismo romano a quello della Chiesa. La tarda antichità divenne così alto Medioevo.
La fortuna del mito barbarico non conosce confini temporali e il fascino mistico che circonda questo argomento fu tramandato per secoli, giungendo perfettamente integro fino alla Modernità. Oggetto di fascino o di repulsione, suscettibile di incarnare l’alterità negativa o di simboleggiare una forza autentica e primitiva, il mito del “barbaro” è stato diversamente sfruttato dalla retorica politica come giustificazione o come alibi.
Il tentativo di legittimare le proprie posizioni politiche e ideologiche facendo ricorso alla storia è un tratto caratteristico di ogni nazionalismo. Infatti, la nascita di una nazione non può essere determinata esclusivamente da una decisione politica, ma necessita di un “mito di fondazione” che ne faccia risalire l’origine ad un insigne passato. Con l’epoca dei lumi giunsero le grandi rivoluzioni che, indebolendo la tradizione degli Stati Nazionali ed abolendo le antiche gerarchie sociali, sovvertirono una volta per tutte il secolare ordine mondiale. Il punto di vista cosmopolitico della storia universale era ancora fondamentale quando, nel 1784, Kant scriveva: «è da sperare che, dopo qualche crisi rivoluzionaria di trasformazione, sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».
La storia, purtroppo, s’incaricò di smentire l’ottimistica speranza del filosofo di Königsberg e di questo fallimento fu responsabile, in maniera decisiva, proprio la Germania. In questo paese, infatti, cultura e politica si incamminarono fatalmente verso il precipizio che conduceva all’irrazionale universo romantico, ponendosi in ostile contrapposizione nei confronti degli ideali cosmopolitici dell’illuminismo. Lo Sturm und Drang evocò il mito nazionale come antidoto all’universalismo dell’età dei Lumi. Questi sentimenti furono espressi in una forma sistematica e diffusi in tutto il paese quando, nel 1807, J. G. Fichte pronunciò i famosi Discorsi alla nazione germanica, con il patriottico intento di destare gli animi ed accendere il sentimento nazionale tedesco contro l’invasore francese.
La voce di tutti i vostri antenati si unisce a questi discorsi e vi scongiura. Pensate che alla mia voce si uniscono quelle dei vostri avi, che si opposero con i loro corpi all’invadente dominazione romana, che conquistarono col loro sangue l’indipendenza dei monti, delle pianure e dei fiumi, che ora, sotto di voi, sono diventati preda dello straniero. […] Tutte le età, tutti gli uomini saggi e buoni che mai hanno respirato in questa terra, tutti i loro pensieri, tutti i loro presentimenti di un che di superiore, si uniscono in queste voci, vi stanno intorno e alzano le mani imploranti verso di voi. […] Se questa vostra essenza perisse, tramonterebbero tutte le speranze del genere umano di potersi salvare dal profondo dei suoi mali.
Quest’ottica germanocentrica celava l’embrione dell’ideologia völkisch, la cui nascita fu determinata da un’ulteriore, semplice precisazione: fu sufficiente stabilire che l’elemento che univa un popolo era il sangue e non solo la lingua o la cultura. Per legittimare quest’affermazione fu tirato in causa l’illustre Tacito che, nella già citata opera storico-etnografica “Germania”, sosteneva la purezza della stirpe germanica: «Propendo a credere i Germani una razza indigena, con scarsissime mescolanze dovute a immigrazioni o contatti amichevoli, […]. E poi, a parte i pericoli d’un mare tempestoso e sconosciuto, chi lascerebbe l’Asia, l’Africa o l’Italia per portarsi in Germania tra paesaggi desolati, in un clima rigido, in una terra triste da vedere e da starci se non per chi vi sia nato?».
L’ironia del discorso fu deliberatamente ignorata. Dunque, i principi di equilibrio e misura che avevano ispirato Kant, Goethe e tanti altri, furono sacrificati in nome della ricerca confusa e turbolenta di un’identità nazionale, operazione che in Germania si dimostrò molto più complicata che altrove. La diabolica miscela di vincoli geografici, mistici atteggiamenti spirituali, e un difficile passato storico frustrarono fin dall’inizio questa ricerca, che si rivelò infruttuosa svelando una tragica realtà. La Germania soffriva di un vuoto storico incolmabile, poiché l’incerta collocazione geografica e la mancata condivisione di veri miti fondativi avevano ostacolato lo sviluppo di una coscienza nazionale collettiva. A questa mancanza si cercò di rimediare ripescando gli annosi e falsi miti pagani: «in mancanza di Napoleone o Garibaldi, si tornò ai Nibelunghi». Fu questo il primo passo verso la catastrofe.
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