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  Quando la vita non basta: le finzioni letterarie di Fernando Pessoa
Piera Melone
     

 

 

E’ durante una sera del 1913, in una modesta osteria di Lisbona della quale è cliente abitudinario, che Fernando Pessoa (Lisbona, 1888 – 30 novembre 1935), oramai riconosciuto come una delle figure capitali della letteratura novecentesca, allora impiegato come traduttore di lettere commerciali presso una ditta di import-export, incontra per la prima volta Bernardo Soares, aiutante contabile presso una ditta in città. Non fin dal primo istante questo tale dalla fisionomia impenetrabile, dall’aria sofferente, angosciata, patita, «magro, piuttosto alto, esageratamente curvo quando stava seduto ma un po’ meno quando era in piedi, vestito con una certa ma non totale trascuratezza» attrae l’attenzione del poeta e scrittore portoghese. I due si rivedranno nello stesso luogo ripetutamente, costantemente e del tutto casualmente, fino a quando non inizieranno a conversare e allora Fernando scoprirà in quell’impiegato umile e silenzioso che vive solo in una camera d’affitto nella “Baixa”, fra Praça de Rossio e il Tago, un personaggio talmente profondo da disconoscere se stesso, talmente presente nella vita da non poterla esperire in altri termini se non quelli della coscienza, custode di abissi esistenziali inaspettati, ma anche e soprattutto, alla stregua di Pessoa, uno scrittore.

Da Soares Fernando Pessoa riceve in lettura il diario incompiuto di un’anima, un antiromanzo rivoluzionario e inconsueto, un denso nucleo sensoriale che racconta dell’esistenza filtrata dalla lente dell’Io che per ricevere la verità pare spogliarsi di se stesso: il Livro do Desassossego [Libro dell’inquietudine], pubblicato per la prima volta in Portogallo solo nel 1982. Desassossego è in lingua portoghese perdita, privazione, mancanza di “quiete” che diviene, in questo caso, l’assenza di pace dell’uomo proiettato nel mondo e lì abbandonato, solo, privo di ogni scusa, sartrianamente, seppure mai fino in fondo, responsabile per se stesso. Desassossego è quell’inquietudine raccontata per la prima volta da un anonimo impiegato di concetto, curvo sul registro contabile in  una stanza d’ufficio o affacciato dalla finestra di una camera a ridosso di Rua dos Douradores, la via dei Doratori affollata di merciai, conciatori e calzolai, lontana dai salotti borghesi del grande Novecento e dalla sua élite culturale: «Pieno di tristezza scrivo, nella mia stanza tranquilla, solo come sono sempre stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così incolore, non possa incarnare la sostanza di migliaia di voci, la fame di raccontarsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni di anime sottomesse come la mia, nel destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza memoria. In questi momenti il mio cuore batte più forte per la consapevolezza che ho di esso. Vivo di più perché vivo più grande. Sento nella mia persona una forza religiosa, una specie di preghiera, qualcosa di simile ad un clamore».

Desassossego è, in Soares, percezione e alterazione dell’esistenza, mondo che si fa coscienza, inconscio, Io, Sein (Essere) e Dasein (Esser-ci) nel dimesso bisbigliare divenuto parola impressa sul foglio che pare rimanere angosciosamente bianco nell’affanno di descrivere ciò che sta al di là del reale, per definizione è inenarrabile: «Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono l’attore, ma i suoi gesti. […] in questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato in un luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io. […] Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni […] Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto […] so […] che sono esistito soltanto perché ho riempito il tempo con coscienza e pensiero. [..] Mi pesa, mi pesa   veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in maniera sonnolenta tra ciò che sente e ciò che vede. E’ così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l’anima è un’entità reale, che non so quali sono le parole umane per definirlo. […] mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui ch esono stato fin’ora. [..] Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale. […] ho visto la verità per un attimo. Sono stato, per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. [..] non so se sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitaneamente la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi persino di noi stessi. E’ stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E alla fine, ho sonno, perché, non so perché, il senso è dormire».
Eppure, proprio vivendo nella dimensione di coscienza libera che precede il sonno, Soares non sogna, ma «sdorme», in quella che pare l’eterna attesa di una sospensione, di un sonno, di un “dimenticare” con le membra, di un abbandono agognato del corpo e della mente, che non arriva mai e così la Desassossego diviene pure, come Antonio Tabucchi definisce l’intero “Libro dell’inquietudine”, una “poetica dell’insonnia”, il silenzio di un’attesa che nel suo stesso atto si pone al centro dell’infinito e ad esso tende, in un pensiero unico che ha il colore e la consistenza di un blu scuro denso, forte, intenso e profondo quanto la notte: «Oltrepasso i tempi, oltrepasso i silenzi; e mondi senza forma passano vicino a me. All’improvviso, come un bambino misterioso, un gallo canta ignaro della notte. Posso dormire perché in me è mattino [..] posso abbandonarmi alla vita, posso dormire, posso ignorarmi»; «Con l’inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre sento poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di non sognare […]Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste, e il sussurrare delle cascate perdute tra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo. […] il rumore del giorno umano aumenta all’improvviso, come il suono di un campanello che chiama. […]piego il collo alla vita come ad un giogo immenso».
Poco o nulla si sa della biografia di Bernardo Soares; è certo però che con un unica opera postuma, per giunta in prosa, egli sia riuscito a ritagliare per sè uno spazio ideale nel contesto di quella “bizzarra età di Pericle della poesia” portoghese, il ventennio 1914-1935, in cui quattro personalità letterarie danno contemporaneamente alla luce altrettante affascinanti opere poetiche distinte eppure riconducibili l’una all’altra.

Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Ferdinando Pessoa invadono (seppure, in parte, virtualmente: i loro scritti inizieranno ad essere pubblicati interamente solo a partire dal 1942) il panorama letterario portoghese, polemizzando epistolarmente, collaborando e redigendo a vicenda prefazioni, scrivendo contemporaneamente e infine scomparendo, nel paradosso, nel medesimo anno, il 1935, in un silenzio improvviso che pare concertato, iniziato nello stesso momento per tutti. Di Alberto Caeiro de Silva (Lisbona, 1899- 1915), maestro di Fernando Pessoa e Alvaro de Campos, si ricordano i poemetti che compongono il Guardador de Rebanhos, gli ultimi versi prima della morte sopraggiunta per tubercolosi e raccolti da Pessoa sotto il titolo di Poemas Inconjuntos e il breve diario, Pastor Amoroso; schivo e solitario, passa tutta la sua vita in un villaggio del Ribatejo («la mia anima è come un pastore/ conosce il vento e il sole/e va per mano alle stagioni/ a seguire e guardare./ Tutta la pace dalla Natura senza persone/ viene a sedermisi accanto»), dove scrive l’intera sua opera. Grandissimo amico gli è Alvaro de Campos (Tavira, 1890- Lisbona, 30 novembre 1935), autore di Opiàrio, un poemetto intriso di dandysmo, eco di un viaggio in Oriente via mare; nel 1914 scrive Ode Triunfal, che diventerà il manifesto del Modernismo portoghese, pubblicato nel 1915 sul primo numero di “Orpheu”, rivista dell’avanguardia  diretta da Pessoa. A partire dal 1929 collabora (attraverso la pubblicazione di poesie dell’assenza e del nichilismo come Apontamento, Aniversario, Tabacaria), come Pessoa, Caeiro e Soares, con la rivista “Presença”, grande incubatore di idee letterarie e filosofiche provenienti dall’Europa e dal Portogallo stesso. Vive invece in autoesilio (per via delle sue idee monarchiche) in terra brasiliana fin dal 1919, dopo l’avvento della prima Repubblica portoghese, Ricado Reis (Oporto, 1887- Brasile, 30 novembre 1935) medico e poeta imbevuto di classicismo ed ellenismo che si riflettono nella geometrica struttura dell’ode oraziana; colto e raffinato, avrà un’accesa polemica sull’arte con Campos e redigerà una critica assai riduttiva dei Poemas di Caeiro. C’è da stupirsi nel constatare che, come gli astri maggiori di una grande costellazione, Caeiro, Campos, Reis, Soares non sono gli unici volti della poesia e letteratura portoghese a svanire senza lasciare traccia a partire dal 30 novembre 1935; con loro ci sono i nomi di Federico Reis (cugino del più celebre Ricardo), Alexander Search, corrispondente di Pessoa fin dal 1899 e autore di racconti in lingua inglese; Charles Search, fratello di Alexander; il Barone di Teive; i filosofi Antonio Mora e Raphael Baldaya; Charles Robert Anon, autore di testi ancora inediti, un sonetto e un progetto letterario redatti in inglese, nonché di una commedia intitolata Marino; A.A. Crosse, legato a Pessoa da un’amicizia profonda; Thomas Crosse; Jean Seul, autore di svariate poesie redatte in francese e di un progetto letterario; Abilio Quaresima. Una moltitudine di vite talmente ricche da sembrare vere (persino allo stesso poeta), conservate in un baule e scoperte interamente solo un giorno del 1942, quando la casa editrice Atica di Lisbona decide di iniziare la pubblicazione delle Obras Completas di quel Fernando Pessoa che, foglio dopo foglio, manoscritto dopo manoscritto, inizia oramai troppo tardi a materializzarsi dinnanzi agli occhi stupefatti degli studiosi come “una delle personalità letterarie più mostruose del Novecento”. In vita già impiegato traduttore fra le vie della medesima Baixa percorsa dal suo semieteronimo Bernardo Soares (spiegherà, in una lettera datata 1935 all’editore Adolfo Casais Monteiro: «E’ un semieteronimo perché, pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione. Sono io senza il raziocinio e l’affettività»), Fernando Pessoa, come quest’ultimo pubblicato integralmente in vita solo una volta (con Mensagem, raccolta di poesie con tema i grandi personaggi storici portoghesi), imperversa sulle migliori riviste dell’epoca, ne crea lui stesso almeno due (“Orpheu”, “Athena”), introduce e diffonde in Portogallo le avanguardie letterarie europee ( orfismo, futurismo, cubismo surrealismo) e dà vita al paulismo, al sensazionismo, all’intersezionismo; importa il meglio della cultura europea di quegli anni, dalla psicoanalisi alla fenomenologia. Sorge il sospetto che entro la galassia eteronimica così frequentata eppure per nulla caotica, lo stesso autore dei volti che la popolano abbia sentito la necessità di annullarsi del tutto per dare ad ogni suo personaggio una voce sola. Addirittura quel Ferdinando Pessoa che scrive con il suo ortonimo (il patriota con uno sguardo sempre volto all’esoterismo; il massone; il razionalista) potrebbe essere finzione, parte integrante e separata del Tutto-Pessoa, ove l’Io irrompe sul palcoscenico letterario e parla di sé, ma lo fa attraverso una solitudine che è parte di un panorama sincronico in cui è stata svelata la presenza di più di una soggettività che contemporaneamente impone lo spazio e il tempo come rigorosamente interiori, nell’assoluta non-aderenza tra “il dentro” e il “fuori”.  Se, come ammette Bernardo Soares, «vivere è essere un altro», se addirittura «sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, ma ricordare», quello stesso Io che si proietta in se stesso e di se stesso diviene l’oggetto, si tramuta in altro da sé. Di qui all’alter ego, all’eteronimia, quella moltitudine “sola” che finisce per assumere dimensioni metafisiche, la linea è sottilissima. Scrive Alvaro de Campos in Passagem das Horas (1917): «mi sono moltiplicato per sentire/ per sentirmi, ho dovuto sentire tutto,/ sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, / e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente». Non si tratta (per lo meno, non solo) di follia, che pure sembra essere un tema molto presente nella vita di Pessoa, sin dall’infanzia, quando egli crea i primi personaggi immaginari con i quali già, così come in età matura, corrisponde, o malattia autodiagnosticata come histero-nevrastenia e delineata freddamente in una lettera inviata a due noti psichiatri dell’epoca (a Monteiro, 1935: «l’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. Questi fenomeni […]esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso»). Se nella vita privata non può evitare di mostrare le sue debolezze (si pensi alla corrispondenza con il suo unico amore, Ophelia Queiroz, costellato di riferimenti agli alter-ego che a volte scrivono in prima persona), nella sua evoluzione letteraria la dissociazione eteronimica si realizza con una coerenza e una lucidità stupefacenti che la razionalizzano e la risolvono. Scrive nell’ abbozzo di prefazione per una progettata edizione della sua opera: «Nella mia visione che definisco interna, solo perché definisco esterno un determinato “mondo”, ho ben fissi, nitidi, noti e distinti, a fisionomia, il carattere, la vita, l’origine, in certi casi la morte di questi personaggi». E ancora, nella lettera a Monteiro: «Fissai tutto questo in forme di realtà. Graduai le influenze, conobbi le amicizie, udii dentro si me le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto ciò mi sembra che io, creatore di tutto, fossi quello che era meno presente. Direi che tutto accade indipendentemente da me. […] se un giorno potrò pubblicare la discussione estetica tra Ricardo Reis e Alvaro de Campos, vedrà come questi due sono diversi tra loro e come io sono niente in materia». Ferdinando Pessoa rende la sua esistenza, già di per sé duplice - tesa com’è tra la vita impiegatizia e l’avanguardia portoghese - una solitudine intellettuale che si è riflessa in una moltitudine di volti soli proprio perché «la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta». Quella grande, rivoluzionaria finzione letteraria, che è eterna sincronia di tutti gli “io” che coesistono nell’uomo e anti-ragione nel suo completo abbandono alla dimensione onirica e all’inconscio, non cessa di stupire, eppure lo stesso poeta, già nel 1931 ci fornisce il paradosso chiave e ragione di tutto: «Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente».

 

 

Uscita nr. 51 del 20/11/2013