:: CULTURA  
  MIES VAN DER ROHE DESIGNER: L'ARCHITETTURA FINO AL MOBILE
Alice Fasano
     
 

Sono ormai noti gli aforismi con cui Mies Van der Rohe amava esprimersi, tanto che alcuni di essi sono stati scelti come slogan di note campagne pubblicitarie: celebre fu il caso del New York Times che nel 1967 si rivolse a Mies chiedendogli il permesso di usare l’espressione «Less is more» in una reclame di biancheria intima. Mies rispose che la cosa non gli interessava, purché le modelle indossassero un intimo bellissimo. Questo linguaggio criptico è il risultato di una metodologia operativa rigorosa e inflessibile: un incessante lavoro di purificazione e cristallizzazione dell’idea concettuale che infine, distillata e perfetta, genera soluzioni assolutamente semplici e così indiscutibilmente ovvie da produrre l’impressione di vere e proprie rivelazioni. Ogni progetto firmato da Mies si distingue per coerenza, precisione e raffinatezza: eliminata ogni minima eccedenza ed ogni segno superfluo, rimane solo la forma perfetta, la verità ultima in tutto il suo splendore.
Alla base dell’estetica miesiana vi sono due mezzi espressivi fondamentali: la proporzione e il valore intrinseco di ogni materiale. Mies sosteneva che la genesi di ogni arte è una legge proporzionale, segno della capacità ordinatrice dell’uomo. «Grazie alla proporzione la materia riceve una forma che è testimonianza dell’egemonia dello spirito umano». Nella determinazione di questa natura formale è essenziale anche il cogitato rapporto con il materiale, il cui valore espressivo non deve essere subordinato alla forma né tantomeno derivare a posteriori come elemento accessorio. Al contrario, la materia e la specificità delle sue caratteristiche devono rivelarsi necessarie e risolutive in ogni progetto. Il messaggio artistico si realizza nell’unità di forma e materia per cui è necessario trovare «una forma adeguata al materiale o un materiale adeguato alla forma». Mies fu sempre intransigente riguardo alla necessità di progettare in rapporto e in armonia alle varie finalità edilizie e per questo motivo s’impegnò costantemente nel perseguire i valori di metamorfosi formale che la tecnologia moderna imponeva alla materia. Fine ultimo di questa ricerca era sviluppare un’architettura fino al mobile.
L’esposizione del Weissenhof (1927) fu la prima occasione in cui Mies si confrontò con i problemi del furniture design, esponendo la sua versione dell’inflazionata sedia “a sbalzo” in tubolare di acciaio continuo. La storia di questo particolare tipo di seduta è segnata da eventi contradditori e da amari contrasti che, inevitabilmente, culminarono durante l’esposizione di Stoccarda. Nel 1925 Marcel Breuer, durante una delle sue abituali passeggiate in bicicletta, si accorse che il tubo metallico che costituiva il manubrio poteva essere piegato in un’infinità di forme complesse, in modo da realizzare la struttura degli arredi che stava allora progettando per l’officina del mobile della Bauhaus. Prese così contatto con la fabbrica che produceva questo tipo di tubolare e, dopo aver molto insistito, riuscì ad ottenere i mezzi e l’assistenza per elaborare alcuni prototipi di sedute. L’esperimento funzionò alla perfezione e Breuer progettò una serie di tavoli e di sedie in tubi di acciaio elegantemente ricurvi, alcuni dei quali furono prodotti per completare l’arredamento della nuova sede del Bauhaus a Dessau. Tra questi pezzi vi era un piccolo sgabello il cui schienale continuo formava una lettera U rovesciata, mentre il piano d’appoggio era in tela intrecciata o in legno secondo l’uso che se ne voleva fare, come seduta o come occasionale tavolino. Pochi mesi dopo l’architetto olandese Mart Stam visitò i nuovi edifici del Bauhaus e Breuer gli fece da cicerone. Quando giunsero davanti ad uno di questi sgabelli, Breuer lo prese e lo posò rovesciato su un fianco dicendo che quella sarebbe stata la sua prossima sedia. Non appena fu tornato a Rotterdam, Stam cominciò a progettare una sedia a sbalzo notevolmente simile alla versione “inginocchiata” dello sgabello di Breuer. Il risultato fu abbastanza grezzo, realizzato con segmenti dritti di tubo da idraulico montati perpendicolarmente l’uno sull’altro tramite raccordi a gomito: un oggetto molto distante dalla composta eleganza che esprimevano le curve in tubo continuo dei mobili di Breuer. Mentre accadeva tutto questo, anche Mies stava lavorando ad un prototipo di sedia a sbalzo il cui scheletro ricurvo si fondava su un principio molto simile a quello che sia Breuer che Stam stavano esplorando. La versione miesiana fu la prima che comparve sul mercato e gli valse il brevetto che garantiva i diritti su questo tipo di sedia per gli anni a venire. In realtà è poco probabile che Mies, abituato a lavorare autonomamente e in totale isolamento, sia stato influenzato dai progetti dei due colleghi. Infatti, il profilo delle sue sedie era completamente diverso dalle forme ad S, quasi angolari, cui erano pervenuti sia Stam che Breuer. La versione di Mies disegnava un profilo lieve e grazioso, assolutamente proporzionato ed elegante e la tenue elasticità dei suoi sedili a molle assicurava al corpo una posizione di gradevole riposo. Inoltre, con il grande arco in tubolare d’acciaio che formava le gambe, Mies giunse a sviluppare una forma veramente consona alla produzione industriale. La competizione progettuale per questo tipo di seduta giunse al suo epilogo proprio durante l’esposizione del Weissenhof: le sedie ad S progettate da Stam risultarono piuttosto sgradevoli e molto al di sotto del livello estetico e funzionale delle versioni presentate dai due colleghi; Breuer (che ammobiliava gli edifici di Gropius) riuscì ad esporre soltanto alcuni tra i primi prototipi dei suoi tavoli e delle sue sedie, ma non la propria versione della sedia ad S, che apparve sul mercato solo l’anno seguente; le sedie di Mies, infine, pur essendo straordinariamente fluide ed eleganti, comportavano un costo di produzione elevatissimo e per questo non vennero mai messe in commercio. Per Breuer la circostanza fu molto spiacevole, poiché non solo vide il suo miglior progetto realizzato prima da altri, ma la sua versione della sedia ad S finì per essere prodotta in serie in tutto il mondo senza alcun vantaggio economico per lui, poiché Mies aveva ottenuto il brevetto dell’idea originale per tutte le sedie a sbalzo.
Durante il periodo trascorso a Stoccarda, lavorando alla progettazione del Weissenhof per l’esposizione del Werkbund, Mies conobbe Lilly Reich, architetto d’interni e stilista di moda che era stata allieva di Josef Hoffmann. I due cominciarono a frequentarsi e in seguito Lilly partecipò a molti dei suoi progetti, in particolare per gli interni, le scenografie espositive ed i mobili. Dopo Stoccarda Mies e la Reich lavorarono insieme per la mostra berlinese “Die mode der Dame” nell’autunno del 1927, dove realizzarono il caffè Velluto e Seta: uno spazio delimitato da schermi tessili ed arredato con le sedie che Mies aveva disegnato per il Weissenhof. In quest’occasione Lilly gli presentò Hermann Lange, proprietario delle filande di seta Verseidag, il quale sostenne l’attività di Mies per dieci anni affidandogli anche la progettazione della propria dimora, realizzata tra il 1927 e il 1930 a Krefeld, nella Ruhr. Grazie all’amicizia con Lange e all’enorme successo riscosso dal quartiere del Weissenhof, nel 1929 Mies ottenne l’incarico per il Padiglione tedesco all’Esposizione internazionale di Barcellona. Sembra che per la realizzazione di questo spazio espositivo non vi sia stata alcuna limitazione di carattere economico, poiché Mies riuscì ad ottenere i materiali più preziosi e sofisticati di cui qualsiasi architetto potesse disporre: il travertino romano, il vetro grigio trasparante, le elegantissime lastre in onice e i pilastri in acciaio cromato. Il padiglione di Barcellona rivelò al mondo la fenomenale portata del genio di Mies Van der Rohe, un artista dotato di gusto e mano ineguagliabili. Gli unici oggetti esposti entro questi spazi erano due tavoli e alcune sedie appositamente progettati da Mies: la celeberrima serie Barcelona. La struttura di questi oggetti è costituita da due coppie di sbarre in acciaio, piatte e cromate, disposte a formare delle X molto morbide, quasi appiattite, collegate in due o tre punti tramite sbarre trasversali sulle quali, grazie ad un graticcio di larghe strisce di cuoio, si dispongono raffinati cuscini rivestiti di pelle. La curvatura delicata delle gambe ad X, la rifinitura perfetta dell’acciaio cromato e le magnifiche proporzioni, hanno reso unico il design della serie Barcelona e l’altissimo valore estetico di questi oggetti risiede nella loro eleganza senza tempo.
L’anno seguente Mies fu impegnato nella realizzazione di una mezza dozzina di case, mostre e negozi di uguale semplicità, precisione e chiarezza. Una di queste è la famosissima casa Tugendhat a Brno, costruita nel 1930, che rappresentò un momento essenziale nell’evoluzione dell’estetica miesiana. Questa casa sarà ricordata soprattutto per il suo stupendo soggiorno: un’area magnificamente strutturata entro la quale Mies dispose attentamente alcuni pezzi del set Barcelona, accanto ad una nuova serie di tavolini e di sedute basata sullo stesso principio della sedia a sbalzo (ma in una versione imbottita e di proporzioni più schiacciate) denominata Tugendhat. Un raffinatissimo tavolo da caffè, formato da un piano di vetro appoggiato su una croce di montanti piatti in acciaio cromato, era posto al centro della zona giorno; ai lati di questo si disponevano due file di poltroncine, da una parte due Barcelona e dall’altra tre Tugendhat, tappezzate in cinghiale naturale o in pergamena bianca. Una pedana quadrata in legno naturale determinava un’isola nello spazio libero definendo l’area principale del soggiorno, il cui punto focale era occupato da un magnifico busto di Lehmbruck posto su un basamento.

La casa Tugendhat rivelò il singolare gusto coloristico dell’artista. Nell’abitazione non vi erano colori veri e propri, ma solo i toni naturali del marmo, del legno, della seta e del cuoio. La “tavolozza” di Mies non prevedeva accenti cromatici vivi, essendo limitata ai bianchi o quasi bianchi e ai neri o quasi neri. Uno dei motivi di questa scelta è che nelle case in vetro da lui progettate i colori sempre mutevoli della natura costituiscono un fattore fondamentale dell’esperienza spaziale. Nella casa Tugendhat, Mies fece del paesaggio la sua “tappezzeria”: una delle pareti vetrate era in realtà una specie di vasca riempita di piante, che trasmetteva all’interno tocchi di colore sempre mutevoli, secondo il variare delle stagioni. Nonostante i vibranti riflessi cromatici e gli scorci naturali sottolineati dalle sue architetture, è evidente che il suo gusto modesto ed essenziale lo portò a rifuggire dai colori aggressivi e dai contrasti violenti tra luce ed ombra. Anche quando fece fotografare i suoi edifici americani, Mies cercò sempre di ottenere quel tipo d’immagini grigie e malinconiche, quasi senza contrasto, che riusciva a scattare in Germania negli anni ’20. Indimenticabili al riguardo, sono le fotografie degli appartamenti 860 Lakeshore Drive, interamente arredati dai mobili di Mies: ambienti talmente eleganti ed essenziali da essere diventati paradigma per ogni salone di rappresentanza.

 

Uscita nr. 37 del 20/09/2012