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Fin dai tempi di Omero la steppa è stata sinonimo di ignoto e pericolo. Essa è il mondo aldilà della civiltà e dell’ordine, una sorta d’immensa cintura del globo confinante a nord con le foreste russe e siberiane e a sud con montagne e deserti spietati. Difficile fissare gli altri confini che vengono piuttosto indicati con espressioni come civiltà o culture. La steppa quindi viene fatta terminare pressappoco ai confini con la Cina e a occidente con l’Ungheria. In questo spazio intermedio tra luce ed oscurità storica vivevano alcune centinaia di tribù con altrettante lingue e non vi si ammettevano altre leggi se non quella del più forte.
La stessa fitta tenebra che avvolge la steppa oscura la figura di Temugin, Gengis Khan e ancor di più quella di Tamerlano.
Questo sovrano di ascendenza mongola, capostipite dei gran moghul, viene indissolubilmente associato a immagini di inaudita ferocia tanto che i suoi contemporanei europei non a caso gli diedero a riguardo un appellativo illuminate: terror mundi. Questo intraprendente figlio di un capo tribù mongolo-mussulmano di poco conto ebbe, come Gengis Khan, la capacità di mettere insieme le turbolente tribù della steppa e marciare alla conquista del mondo. A partire dal 1370 Tamerlano conquistò gran parte dell'Asia centrale e del Medio Oriente. Nel 1400 iniziò ad invadere l'Anatolia e nel 1402, con la battaglia di Ancyra, sconfisse pesantemente gli ottomani catturando il loro sultano Bayezid I. Alla sua morte, avvenuta nel 1405, il suo impero si estendeva dal Caucaso all'India.
La notizia raggiunse troppo tardi l'erede designato, il nipote Pir Muhammad, figlio del primogenito Giahangir, che si trovava a Kandahar (Afganistan). Di questa lontananza approfittò un altro nipote, Khalil, figlio del terzogenito Miran che prese il potere rivelandosi tuttavia un folle, come già il padre, e abbandonandosi a bagordi e intemperanze. Shah Rukh, il saggio e pio ultimo figlio di Tamerlano, fu richiamato da Herat (Afganistan) dove si era ritirato presso una confraternita religiosa, per cacciare il nipote, accettando di essere riconosciuto sovrano (1407). Tuttavia tornò quasi subito a Herat, affidando il governo al figlio Ulug Beg, altro grande personaggio, destinato a diventare, oltre che un governante illuminato, uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi. Quanto rimane del suo straordinario osservatorio è infatti ancora visitabile a Samarcanda.
Ma colui che ha legato il destino dell’impero moghul all’India fu nel 1526 Babur il Conquistatore, discendente anch’egli di Tamerlano. Già governatore della Transoxiana, l'odierno Uzbekistan, cacciato dalle sue terre in seguito all'invasione dei nomadi Uzbeki, Babur, desideroso di conquistare un altro regno, decise di invadere l'India che allora si trovava sotto il dominio del Sultanato di Delhi.
Con un piccolo ma ben armato esercito la invase e si scontrò con l'esercito del sultano Ibrahim Lodi nella battaglia di Panipat, uscendone vincitore.
Babur regnò per altri quattro anni, estendendo il suo nuovo impero dall'Afghanistan al Bengala, e incrementando le migrazioni turche dall'Asia centrale in India, accrescendo così il peso della religione islamica in questo paese. L'impero raggiunse l'apogeo con il terzo imperatore, Akbar il Grande, che completò la conquista del Bengala e sottomise il Gujarat e i principati indù Rajputi, che furono inseriti nell'apparato amministrativo Moghul in qualità di esattori delle tasse. Akbar fondò la nuova capitale di Fatehpur Sikri e cercò di creare una nuova religione sincretistica tra l'Induismo e l'Islamismo.
Gli ultimi grandi imperatori Moghul furono Shah Jahan, Imperatore del mondo, che regnò dal 1628 al 1658, e suo figlio Aurangzeb (1658 - 1707). Spietato e fanatico, quest'ultimo dedicò gli ultimi anni del suo regno ad una lotta incessante contro i principi indù Maratha, abitanti nell'attuale Maharashtra, che avevano creato la Confederazione Maratha nell'India meridionale.
Aurangzeb impose in tutta l'India la religione islamica provocando rivolte e guerre. Alla sua morte, avvenuta nel 1707, l'impero si disgregò, e ciò che ne rimaneva fu definitivamente conquistato dagli inglesi dopo la rivolta dei Sepoy nel 1859.
La stirpe moghul portò al superlativo qualsiasi cosa intraprendesse sia quando, al suo debutto, perpetrò una tra le più grandi stragi della storia, sia nel momento in cui donò all’umanità la più moderna forma di stato mai conosciuta prima di allora. Visse nello sfarzo più spettacolare di tutti i tempi e contemporaneamente commise atrocità che avrebbero potuto suscitare l’ammirazione del marchese de Sade. Conobbe un altissimo livello di cultura e si crogiolò nelle più sofisticate barbarie, ma toccò anche raffinatezze politiche degne della moderna diplomazia per trovare poi la sua fine in un colossale ginepraio di intrighi.
Non c’è quindi da stupirsi se viene sempre aggiunto a moghul l’aggettivo “grande”. Mai come allora la storia fu così simile alle fiabe: era come se il bizzarro mondo dei sogni fosse diventato realtà. I moghul, sorprendendo persino i cronisti più disincantati, restarono esotici imperatori sempre stranieri anche nella loro patria. Ecco perché nei libri di storia si aggirano come fantasmi, eccezioni irripetute e allo stesso tempo incomprensibili. Sono diventati proverbiali: si dice infatti “pazzo, ricco, avido di piacere, crudele come ….un gran moghul”.
Goethe stesso si è lasciato ispirare dagli imperatori asiatici utilizzando oltre 37 possibili paragoni, dei quali i germanisti, pedantemente, hanno tenuto il conto.
Dunque il fiabesco che oggi immaginiamo fu per loro uno stile di vita.
Il dramma dei gran moghul si svolse in scenari che neppure Hollywood riuscirebbe ad eguagliare: palazzi marmorei di un bianco abbagliante cosparsi di pietre preziose sotto un cielo eternamente azzurro, tra fresche fonti sussurranti, tende di seta e giganteschi ventagli di piume di pavone. Alla grandiosità di tale spettacolo non poteva mancare un labirintico harem con profumati giardini di rose e gelsomini, gabbia di pietre preziose per stuoli di donne in sete scintillanti. Per le avventure era sempre pronto uno sterminato esercito con migliaia di cavalli purosangue e di elefanti nerodipinti, senza contare le lunghe carovane di cammelli con i tesori dell’oriente.
Al favoloso splendore avevano dato un contributo anche le terre occidentali: quello che oggi chiamiamo commercio con paesi in via di sviluppo fu in passato una prerogativa dei moghul nei confronti degli allora arretrati europei. La storia degli imperatori d’India è ad un tempo imperiale e imperialista, un’antichissima fiaba del nostro presente, dalla quale non è stato ancora tratto insegnamento. Il celeberrimo Taj Mahal, costruito dall’imperatore Shah Jahan in memoria della moglie Arjumand Banu Begum e terminato nel 1654, non è soltanto il sempre citato monumento dell’amore eterno ma è anche in qualche modo il simbolo degli odi dell’Europa: fu quasi totalmente finanziato con i profitti della vendita del salnitro che veniva comprato dagli europei per preparare la polvere da sparo utilizzata nella guerra dei trent’anni.
Non è solo questo stretto collegamento tra lo sfarzo esotico e la miseria europea a rendere arduo il compito dello storiografo; anche lo svolgersi della storia della stirpe moghul supera qualsiasi drammatica immaginazione. Iniziata sotto le tende dei nomadi in una contrada asiatica appena segnata sulla carta geografica, per giungere ai più bei palazzi mai costruiti in India e finire con il mutarsi di questi in prigioni per i loro stessi proprietari, mentre una potenza risibilmente piccola, giunta dalla lontana Europa, inghiotte il gigantesco impero.
L’arco della storia moghul passa dalle più brutali razzie a forme di stato con punte di civiltà assai elevate e immancabili regressi alla barbarie, ogni volta intessuti di una fitta rete di intrighi ed effimere alleanze. L’unico elemento di continuità di questa vicenda sembra essere una tendenza allo smisurato, al superlativo.
Tamerlano, il capostipite, fu infatti uno dei più grandi conquistatori. Pur tuttavia i personaggi come lui rimangono certamente i più imbarazzanti della storia. Rincuora il fatto che l’attributo di grande, che segue immancabilmente il loro nome, è quasi sempre attribuito dalla canaglia che si mette al seguito di simili guerrafondai. E’ con questa consapevolezza che si perdona ad Alessandro, il collerico macedone, di essersi ritenuto un Dio vivente e il padrone del mondo. Ciò nonostante il suo esercito scioperò proprio alla vigilia del passo decisivo, e lui stesso morì assai prima del tempo, forse vittima di mano amica?
Anche Napoleone Bonaparte, il predone morto a Sant’Elena dopo aver gettato il vecchio continente in un caos senza precedenti, è ritenuto senza riserve un grand’uomo. E perfino Hitler, il caporale, nel quale solo con l’aiuto di un’attenta radiografia si riesce a riscontrare qualche lontano tratto di umanità.
Ma i veri conquistatori sono di origine orientale e restano pur sempre demoni fiammeggianti, incomprensibili come la steppa che ha fatto da sfondo alle loro azioni.
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