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La comprensione di qualsiasi tipo di fenomeno artistico implica, per chi volesse intraprendere questo percorso, un lavoro che non é molto dissimile da quello che compie lo psicologo quando cerca di individuare le radici della malattia nei suoi pazienti, nel senso che, come lo psicologo, anche il critico d’arte deve indagare gli avvenimenti che hanno preceduto la genesi del fenomeno (malattia/arte), scoprendo in essi le motivazioni che hanno portato al suo insorgere. Se ci si vuol mantenere nel solco di questa similitudine, bisogna tuttavia considerare che, a differenza dello psicologo e del soggetto che a lui si rivolge, il critico e l’artista non hanno alcuna intenzione di guarire la malattia (l’espressione artistica). La guarigione implicherebbe infatti la fine dell’Arte, cioè di quel particolare tipo di lucida visione del mondo, che agli occhi dei sani può apparire distorta, ma molto spesso è illuminata dal genio, malefico o positivo che sia, tipica di alcuni soggetti. La critica dunque si limita semplicemente a capire e contestualizzare socialmente le cause di determinati comportamenti del paziente artista.
Come scrisse Fiedler “il principio dell’attività artistica è la produzione della realtà, nel senso che nell’attività artistica la realtà raggiunge la sua esistenza, cioè la sua forma concreta in una determinata direzione” o anche “l’arte non è un arbitrario arricchimento, un in più della vita, ma uno sviluppo necessario della stessa immagine del mondo”.
Al termine Età Vittoriana ho sempre associato l’idea di un’epoca scientificamente e tecnologicamente molto prolifica. Nelle immagini che mi venivano in mente le città, divenute grandi metropoli per l’immigrazione delle plebi, fuggite in massa dalle campagne in cerca di un impiego nel settore industriale, pullulavano di gente frenetica in continuo movimento; insomma un clima di generale benessere ed entusiasmo in cui la fede nel progresso e i valori della nuova borghesia industriale, agendo come una locomotiva a vapore, trainarono la società in piena epoca moderna.
Il prezzo da pagare per il progresso fu però molto alto: i lavoratori venivano spietatamente sfruttati e i loro compiti erano alienanti e, nel peggiore dei casi, pericolosi. Le condizioni di vita del popolo erano disumane e i ceti dirigenti manifestavano una morale grettamente corrotta.
Inoltre la vittoriosa battaglia di Waterloo, che vide Napoleone finalmente sconfitto, portò in Inghilterra un diffuso benessere economico, ma il paese scontò “l’opposizione alle ideologie rivoluzionarie con l’arretratezza sociale, l’involuzione culturale e poi l’ipocrita moralismo vittoriano” (G.C. Argan).
L’espressione artistica, come quella intellettuale, attraversò allora un momento di profonda crisi. Mentre altrove, per esempio in America, l’industrializzazione s’impose e procedette senza ostacoli, da quelli socio-politici a quelli etico-estetici, in Inghilterra si sviluppò un dibattito ideologico radicale trattando questioni come il rapporto tra industria e società, tra passato e presente, tra artigianato e meccanizzazione.
In questo contesto si colloca la genesi della cosiddetta Riforma delle arti applicate chesi può far risalire alla famosa dichiarazione di sir Robert Peel alla Camera dei Comuni del 1832, in occasione del dibattito sull’istituzione della National Gallery. Lo statista, che era anche un magnate dell’industria, sosteneva che la nascita di questa galleria non rispondeva solo ad esigenze di ricreazione pubblica, ma che gli stessi interessi delle manifatture inglesi erano coinvolti ogniqualvolta fossero incoraggiate nella nazione le arti applicate. E benché fosse noto che in ogni questione legata alla meccanica i manifatturieri inglesi erano superiori ad ogni concorrente europeo, bisognava sviluppare maggiormente la componente estetica di tali manifatture, così importante per raccomandare al gusto del compratore i prodotti dell’industria.
Dopo il Reform Bill, alcuni intellettuali, politici e pubblici amministratori, preoccupati della concorrenza con l’estero, si occuparono di promuovere una serie di iniziative quali associazioni artistico-culturali ma soprattutto centri didattici. In particolare furono istituite scuole di disegno a Londra, Birmingham, Manchester, ecc. Accanto ad esse, collezioni di opere d’arte antica e moderna, pura e applicata affinché costituissero modelli per gli allievi.
Protagonista di molte di queste iniziative fu Henry Cole (1808-82), uno dei rappresentanti della cultura vittoriana nel campo del nascente design. Il progetto di Cole a partire dal 1845, fu quello di una stretta collaborazione tra l’industria e l’artigianato; per questo coniò l’espressione art manufacturer denotando la nuova figura di artista-fabbricante, che può essere considerata la prima anticipazione del moderno designer. Nel 1849 Cole fondò “Journal of Design and Manufactures”, un periodico edito a fascicoli, nel quale emerse la convinzione di Cole che per la qualificazione del prodotto industriale fossero necessari alcuni basilari principi: il primo riguardava l’esigenza di imparare a vendere, anche come criterio pedagogico da introdurre nell’insegnamento del disegno nelle scuole; il secondo prevedeva la riformulazione del concetto basilare di funzionalità rendendolo valore di semplice e schietta qualità.

Henry Cole, disegni didattici oggetti d’uso comune da “Journal of Design and Manufactures”
Cole fu inoltre uno dei maggiori artefici della Great Exhibition svoltasi nel 1851 e l’anno dopo fu impegnato nell’istituzione di un museo di manufatti, come centro di collezione e di ricerche su ogni genere di arte applicata, destinato a diventare il nucleo originale del Victoria and Albert Museum; chiuse la sua carriera con la nomina di sole segretary of department of design col compito di sopraintendere a tutte le scuole di disegno inglesi.
Grazie all’interesse per gli useful objects, che in pittura riscontriamo già nel quadro di Delacroix "Angolo di studio: la stufa" del 1825 ca., Cole spostò l’attenzione degli studenti, degli artefici, dei produttori e del pubblico sugli oggetti semplici e comuni della vita quotidiana, investendo questi ultimi di un nuovo valore di artisticità solitamente attribuito alle arti maggiori.
I nuovi oggetti prodotti industrialmente dovevano quindi avere una forma che rispondesse a tali principi, ed è proprio in questo campo che la ricerca di Cole e dei suoi compagni ebbe i risultati migliori.
Owen Jones, nella sua Grammar of Ornament, raccolse e confrontò oggetti decorativi delle più diverse epoche e provenienze per cercare, in una così vasta ed eterogenea produzione, principi conformativi e caratteri invarianti, arrivando a sostenere che “il fondamento di tutte le cose è la geometria” e che i colori andavano usati in maniera spaziale e percettiva (i colori caldi avvicinano all’osservatore le forme e le superfici, mentre i colori freddi le allontanano) e non in senso espressionistico o illusionistico.
In sintesi: con la ricerca di una metodologia progettuale basata sulla geometria, l’organicismo, i caratteri invarianti, la tendenza alla semplificazione e alla riduzione, il progetto di Cole potrebbe oggi essere definito di tipo “strutturalista”.
Cristal Palace - frontespizio catalogo
Di tipo “storicista” fu invece il progetto portato avanti da una cerchia di intellettuali ed artisti più radicali, senza alcun legame con i politici ed i produttori e che rifiutarono, con forme di esplicita provocazione, la nascente cultura industriale. Jhon Ruskin, il maggiore critico europeo del XIX secolo, identificò con l’appellativo di Arte Preraffaellita la produzione pittorica del gruppo, volendo porre l’accento sull’esigenza del “ritorno ai primitivi”, gli artisti vissuti prima di Raffaello e Michelangiolo, cioè prima del peccato d’orgoglio che aveva fatto dell’arte un’attività intellettuale.
Esponente di questo gruppo fu William Morris (1834-96) che si ispirò al Ghotic Revival e alla linea neomedievale di Welby Pugin e di Ruskin. Combattendo il liberismo, il commercialismo e l’eclettismo della produzione industriale della sua epoca e predicando il cosiddetto “ritorno alle campagne”, slogan esplicitamente provocatorio, Morris sosteneva la necessità di prendere a modello le corporazioni, le lavorazioni e le morfologie tipiche dei prodotti medievali, cioè di un’epoca caratterizzata dall’onestà dei rapporti sociali, dal corretto uso dei materiali, dalla pregevole esecuzione artigianale e da quella “Joy in Labur” definita da Ruskin come un antidoto all’alienante lavoro industriale e unica garanzia della qualità dei prodotti.
Anche in questo caso, il primo effetto di questi insegnamenti fu che molti giovani artisti, architetti e dilettanti decisero di dedicarsi all’arte applicata che riacquistò dignità e nobiltà, dopo essere stata considerata per oltre mezzo secolo un’occupazione inferiore.
Morris considerò prioritaria, rispetto alle altre, la riforma delle arti applicate, poiché in esse si spendevano quotidianamente più energie e interessavano un maggior numero di persone, tra produttori e consumatori.
Fotografia di W. Morris a 50 anni
Esiste un forte legame tra l’opera di Henry Cole e quella di William Morris. Al di là del diverso atteggiamento nei confronti della produzione industriale, entrambi riconobbero gli stessi valori: l’amore per gli oggetti della vita quotidiana, le esigenze del più vasto pubblico, l’azione propagandistica e soprattutto la preferenza per le arti applicate.
Come esempi dell’attività pratica di Morris vanno ricordati: l’arredamento dello studio del collega D. G. Rossetti eseguito nel 1865 con alcuni membri del gruppo tra i quali Philip Webb, Edward Burne-Jones, William Hunt, Ford Maddox Brown, Peter Paul Marshall e Charles Faulkner; la costruzione della celebre Red House nel 1859, progettata da Webb ma arredata con pezzi singoli prodotti dagli artisti citati; l’apertura della ditta Morris, Marshall, Faulkner & Co nel 1862 e infine l’organizzazione, dal 1888, delle esposizioni di arti applicate, dal titolo Arts and Crafts, che in seguito diventerà il nome dell’intero movimento morrisiano.
Se è vero che l’azione di Morris deve la sua popolarità ai caratteri più tradizionali della sua teoria, espressi con la netta opposizione alla tendenza utilitaristica dell’epoca, in essi bisogna leggere una forte volontà di risanare la morale, ormai profondamente corrotta, più che l’effettivo rifiuto della società paleo-industriale. Infatti, da alcuni dei suoi scritti più maturi emerge la consapevolezza di vivere in un importante momento e in una grande nazione ma, soprattutto, il riconoscimento dell’importanza delle macchine.
Inoltre i suoi più immediati eredi, cioè la generazione nata intorno al 1850, aderirono ancor più esplicitamente alle condizioni del tempo: alla bottega artigiana sostituirono una rete di laboratori e organizzazioni produttive, ed ammisero esplicitamente la possibilità di avvalersi del lavoro delle macchine.
La ricerca teorica ed estetica di Morris fu quindi il seme da cui, nell’ultimo decennio del secolo XIX, germogliarono le correnti artistiche moderniste.
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