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Il masato, presso i nativi dell’Amazzonia peruviana, è una tradizionale bevanda fermentata che si prepara con la yucca (manioca), un tubero simile alla patata americana, che rappresenta uno degli alimenti base in molti paesi del mondo. L’avvio alla fermentazione si ottiene con gli enzimi contenuti nella saliva, mediante una ripetuta masticazione della yucca durante la preparazione della bevanda, operazione alla quale sono deputate le donne del villaggio.
In ventiquattro ore il prodotto diventa alcolico, assumendo così un valore energetico oltre che nutritivo, dissetante e inebriante. La gradazione alcolica aumenta poi con il passare del tempo, per cui la bevanda diventa anche un’importante scorta e risorsa alimentare per gli indios che devono spostarsi nella foresta: possono vivere nutrendosi di solo masato anche per molti giorni.
Oggi il masato non viene più preparato con questo metodo tradizionale, ma avviando la fermentazione con lieviti commerciali.
Recentemente mi trovavo in Perù per un progetto editoriale in collaborazione con l’Associazione Green Life: un volume fotografico sulle condizioni di vita oggi in Amazzonia, sulle tradizioni e i costumi di un mondo che sta cambiando velocemente.
Inaspettatamente mi si presentò l’occasione di assistere alla preparazione del masato secondo l’antica tradizione e poterlo documentare.
Il prodotto era esposto in una bancarella in un vicolo dell’immenso e folcloristico mercato di Iquitos, sotto forma di un liquido lattiginoso, racchiuso in sacchetti di plastica trasparenti.
Per una strana coincidenza, Pablo, un giovane nativo di etnia Cocama che mi faceva da guida quel mattino, mi presentò la venditrice, una signora affabile e dal sorriso comunicativo, che, come scoprii presto, era sua suocera. La chiamava Mama Rosa.
Pablo bevve di gusto una ciotola di quella strana bevanda che la signora gentilmente ci offriva lodandone le proprietà dissetanti ed energetiche.
Io riuscii a sottrarmi alla prova, adducendo la flebile scusa che avevo appena bevuto una inkacola.
« Che cosa usa » le chiesi comunque curioso « per la fermentazione? »
Mama Rosa mi rispose con aria risentita: «Da sempre le donne della mia famiglia preparano il masato secondo la tradizione, anche le mie figlie. »
Non mi sembrava vero! Forse potevo documentare la preparazione di quella tipica bevanda in uso tra i nativi dell’Amazzonia, potendo così arricchire la nostra piccola ricerca con un capitolo importante riguardo agli usi e costumi di quella gente.
Mama Rosa abitava alla periferia della città, nella grande baraccopoli di Belen. Non era certo un posto per turisti, ma avevo un’ottima guida, Pablo, che conosceva bene quel quartiere. Già nel primo pomeriggio procedevamo in canoa, Pablo alla pagaia, tra case galleggianti e altre su palafitte: in quel periodo dell’anno il livello dell’acqua era alto e le viuzze sommerse.
La casa era una tipica abitazione di legno costruita su palafitte, su lunghissimi pali che si ergevano per qualche metro sopra il livello dell’acqua. In febbraio e in marzo il livello dei fiumi cresce fino a inondare la foresta, le case galleggianti vengono legate tra loro in modo che la corrente non le porti via, mentre le case su palafitte rimangono all’asciutto.
In quei mesi l’unico mezzo di trasporto è la canoa.
Una scala di legno scendeva da una botola del pavimento e si perdeva nell’acqua limacciosa. Guidato da Pablo, entrai, passando dal pavimento, in casa di Mama Rosa: si trattava di un unico grande ambiente, una parte del quale era adibito alla piccola attività familiare: la preparazione del masato.
Osservai, non senza un certo timore, che in un angolo ardevano dei grossi ceppi di legno. Sul fuoco un pentolone annerito, ricolmo di pezzi di yucca messi a bollire, disperdeva il vapore verso l’alto tetto di foglie di palma.
Anche in questa casa, ormai, la plastica era entrata di prepotenza sotto forma di secchi, catini colorati e teli applicati a completare le pareti.
Un signore di mezza età alimentava il fuoco e controllava la cottura della yucca. Svuotare il pentolone dall’acqua bollente e versare alle donne i tranci di yucca bolliti è un compito gravoso che spetta a un uomo, mi spiegava Pablo, dicendomi che spesso si faceva carico lui stesso di questa mansione.
Sul pavimento, sedute attorno a un lungo contenitore di legno a forma di canoa e, come le canoe, ricavato da un unico tronco, le donne erano indaffarate a pestare la yucca.
Mama Rosa e le sue due figlie, Concepción e Leni, alzavano e abbassavano senza sosta le braccia per triturare il materiale, tenendo tra le mani un pestello di legno che a sua volta ricordava la forma di una pagaia.
Lavorando energicamente, trasformavano i tranci di yucca in una poltiglia biancastra che veniva via via sospinta verso un’estremità del contenitore.
Il lavoro richiedeva un certo sforzo fisico e una notevole resistenza, visto che si protraeva poi per alcune ore.
E mentre pestavano e mescolavano la poltiglia biancastra, se ne riempivano la bocca con un cucchiaio fino ad averne le guance piene come criceti e continuavano a masticarla a lungo per poi risputarla nuovamente nel contenitore.
Forse quei gesti, compiuti da donne in abiti moderni, alla periferia di una città e non in un villaggio sperduto in mezzo alla giungla, avevano perduto un po’ dell’antica, ancestrale sacralità. Tuttavia la tradizione era conservata e tramandata, e questo mi sembrava importante.
Concepción e Leni continuavano a riempirsi la bocca e a masticare e ogni tanto mi guardavano ridendo, divertite, come fosse un gioco.
Quindi risputavano il tutto nel contenitore, orgogliose di quanto materiale erano riuscite a tenere in bocca e a masticare in una sola volta.
Quando la poltiglia era pronta, Mama Rosa toglieva le impurità, passandola attraverso un colino, e la raccoglieva in un secchio, pronta per essere, più tardi, suddivisa nelle buste di plastica trasparente.
Trascorsi così alcune ore piacevoli in quella casa, in compagnia di quelle donne, indotte a scherzare e a fare un po’ di scena in mia presenza, e a qualche bimbo che partecipava all’attività come fosse un gioco. Era gente povera, semplice, ma anche affettuosa, che non mi fece sentire un estraneo. Conservo un piacevole ricordo della loro ospitalità.
Solo all’imbrunire potei lasciare quella casa: attraversai Belen, le luci erano già accese, mentre la canoa filava silenziosa tra le case galleggianti su tronchi di balsa, e lungo le stradine allagate dove i bambini, anche a quell’ora, sguazzavano gioiosamente nell’acqua. Lasciata l’imbarcazione nella parte più elevata, ci incamminammo a piedi tra la gente che mi osservava, stupita di vedermi lì, mentre qualcuno non mi risparmiava occhiate poco rassicuranti, come a dire: cosa ci fai tu qui, un gringo, a quest’ora?
Proseguimmo poi verso il mercato in un dedalo di stradine e vicoli ormai bui, dove per mia fortuna Pablo era di casa.
Attraversare Belen di notte è un’esperienza che sicuramente a pochi stranieri capita di fare .
Il giorno seguente passai alcune ore alla Biblioteca Amazonica di Iquitos, un palazzo storico dell’epoca del caucciù, trasformato in un forno dal sole che scaldava feroce una grande vetrata, progettata da un architetto del secolo scorso che, sicuramente, in Amazzonia non aveva mai messo piede.
Aiutato da una volenterosa ragazza che, nonostante indossasse una canottiera rosa molto scollata, aveva il viso imperlato da gocce di sudore, passai in rassegna alcune decine di scatole di cartone, contenenti vecchie foto di archivio. La documentazione fotografica storica, relativa alle condizioni di vita e ai costumi dei nativi, era tuttavia molto scarsa. L’unico riferimento alla preparazione del masato da me rinvenuto è la vecchissima foto, un po’ sbiadita, che ho inserito all’inizio di questo articolo.
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