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Maina, la baraccopoli di Nyahururu, in Kenya, è unica al mondo nel suo genere: non è sorta spontaneamente come tutti gli slums alla periferia delle grandi città, ma è stata progettata a tavolino e costruita dagli inglesi all’epoca del colonialismo. In base a un preciso piano urbanistico, sono state tracciate una via principale e una serie di viottoli laterali che, nella stagione delle piogge, diventano comunque inagibili, a causa delle pozzanghere e del fango.
Le baracche di legno, a schiera, hanno il tetto di lamiera; alcune portano ancora un numero inciso sulla porta d’ingresso. All’interno il pavimento è in terra battuta. In origine erano previsti due locali: un ingresso - cucina, dove su tre grosse pietre si poteva cucinare, ed una piccola camera da letto. In seguito, i locali sono stati suddivisi per ospitare altre famiglie o per darli in subaffitto.
Gli inglesi, ordinati e previdenti, avevano provveduto a costruire anche alcuni grandi cassoni di cemento per la raccolta dei rifiuti.
La densità della popolazione oggi è superiore a una persona per metro quadro: a Maina vivono più di cinquantamila persone. Ma, in realtà nessuno sa quale sia il numero esatto degli abitanti. Ad ingrossare la bidonville sono soprattutto sfollati, profughi, nomadi e contadini spinti verso la città dall’illusione di trovare un rifugio o un lavoro. Trovano invece disoccupazione e violenza, alcool e droga e l’AIDS.
Gli unici bianchi che si vedono in giro sono i missionari: uomini e donne che spesso vivono con gli africani e ne condividono le sofferenze, la miseria, le gioie semplici. Parlano le lingue locali. Si battono senza paura contro la fame, i virus, la violenza. Ai missionari si associano anche medici volontari che a volte si recano a trovare, nelle loro baracche, gli ammalati che non sono in grado di recarsi da soli al dispensario della missione di Nyahururu.
Con il passare del tempo, molte baracche sono state rattoppate con pezzi di legno, cartoni e lamiere arrugginite, mentre i raccoglitori di rifiuti sono quasi sempre stracolmi di immondizie putrescenti, vere e proprie discariche maleodoranti che raramente qualcuno provvede a ripulire.
Non c’è illuminazione pubblica e di notte sulla baraccopoli scende un buio nero come la pece, se si eccettuano due o tre bettole, luogo di incontro di ubriachi e prostitute, illuminate dalla fioca luce di poche lampadine alimentate da generatori o da una ragnatela di cavi elettrici illegali.

Wilkinson, Peter e Guleed dormono nella discarica più vicina all’ingresso, la numero uno, avvolti in teli di plastica o coperti da cartoni.
I rifiuti fermentano, generando un piacevole tepore che li protegge dal freddo notturno di quella città dell’altopiano, posta a 2400 metri di altitudine.
Wilkinson ha 12 anni, è etnia Kikuyu. Il ricordo dei suoi genitori si è offuscato con il passare del tempo e il dolore è ormai un nucleo indurito non più percettibile razionalmente.
Un solo ricordo galleggia sulle onde del tempo, ostinato a non affondare nell’oblio: l’immagine di una bara di legno chiaro sulla quale il falegname aveva inciso col fuoco, monito per tutti, “died of AIDS”.
Peter, suo fratello più piccolo: ha solo nove anni.
La famiglia di Guleed, invece, era di origine somala. Nella sua mente di dodicenne non è rimasto nulla del passato, della guerra, del campo profughi di Isiolo. I suoi ricordi sono più recenti. Per chi vive alla giornata il passato non conta, non c’è tempo per i ricordi quando si è bambini di strada, quando non si ha più nessuno e si lotta quotidianamente per la sopravvivenza.
Di solito al mattino Wilkinson si sveglia per primo. Si sente responsabile verso gli altri perché è il più grande, e soprattutto di Peter, suo fratello.
Peter, Guleed! Chiama, mentre fuoriesce dalla nicchia tra i cartoni.
Ho fame, sono le prime parole di Peter. Allora si lasciano scivolare giù dalla montagna di rifiuti e si dirigono alla fontana pubblica dove possono bere e lavarsi il viso per poi, seguendo il bordo della strada, avviarsi verso il centro della città, verso il mercato.

Wilkinson indossa un vecchio maglione blu, sformato e pieno di buchi. Peter è orgoglioso di suo fratello perché quello è il colore delle divise scolastiche. Lui invece non è mai stato a scuola ne ha mai posseduto un maglione della sua misura.
Dalla tasca dei pantaloni logori, cenciosi, di Wilkinson spunta un barattolo di plastica. Anche gli altri due bambini ne possiedono uno. Servono per sniffare la corta, la colla allungata con trielina, oppure la benzina.
A Nyahururu c’è un mercato vivace dove si vende e si compera di tutto: frutta, verdura, carne, cibi cotti, attrezzi, vernici, pareo, stoffe, medicine.
E anche armi, nei retrobottega. Un kalashnikov si può trovare per 50 dollari.
Il mercato è sempre affollato, c’è un via vai continuo di gente, per tutto il giorno. I pareo delle donne Kikuyu sono vivaci macchie di colore che si aggiungono alle tinte accese che caratterizzano i mercati di ogni paese equatoriale. Non è infrequente incontrare anche donne Turkana o Samburu con i loro caratteristici mantelli variopinti e le innumerevoli collane di perline colorate tipiche del loro abbigliamento.
I tre bambini si inoltrano tra le bancarelle in cerca di cibo, con occhio attento.
Hanno fame, ma non possono rischiare di essere colti in flagrante mentre rubano un frutto, o anche un pezzo di pane, perché nessuno avrebbe pietà di loro. Verrebbero picchiati e, se consegnati alla polizia, forse portati via e separati. Rubano solo se costretti da una fame insopportabile e non chiedono l’elemosina: è inutile. Sarebbero scacciati e insultati.
A volte trovano della frutta, caduta a qualcuno o scartata perché troppo matura. Allora si tuffano per raccoglierla prima che qualcun altro li preceda e rapidamente si allontanano perché temono di essere accusati di furto. Si fermano per mangiare, dividendo tutto in tre, in un angolo nascosto dove nessuno li nota. La parte migliore spetta sempre a Peter.
Continuano a camminare tra le bancarelle e le botteghe. Passano le ore e di solito riescono a racimolare un po’ di cibo, qualche avanzo, del pane o dei chapati del giorno prima. Come un rito che si ripete quotidianamente si dirigono verso i mucchi di rifiuti del mercato, l’immondizia ricca come viene anche chiamata. Lì è più facile che nelle discariche dello slum trovare qualche cosa da mangiare, e, con un po’ di impegno, qualche rifiuto riciclabile da rivendere per guadagnare qualche monetina.
A volte si offre loro la possibilità di aiutare le donne a scaricare le cassette di verdura o i macellai a pulire le loro botteghe. Allora possono comperare la colla.
Vanno da Rashid. Devono percorrere una serie di stretti viottoli tra le baracche di legno per raggiungere la sua bottega. Rashid ha i capelli bianchi ed è molto grasso. Passa le giornate seduto al suo banco da calzolaio circondato dai suoi attrezzi, tutti a portata di mano. Usa la colla per fare le scarpe. Mentre Guleed e Peter aspettano fuori, Wilkinson entra senza salutare, in silenzio. Dà al vecchio una monetina e il suo barattolino di plastica, nel quale Rashid versa un liquido giallastro.
I tre bambini si recano allora in un vicoletto tra le baracche di legno, dove Wilkinson versa a sua volta un pò di liquido nei barattoli degli altri due. Poi si fermano ad annusare l’odore della colla, inalano a fondo e per un momento si sentono come storditi.
Ora sono tranquilli: hanno la corta. Non sentiranno più gli stimoli della fame!
Escono dal mercato di solito dopo mezzogiorno. Camminano sul ciglio della strada asfaltata incuranti del traffico, sfiorati dai grossi camion sgangherati e dai rumorosi autobus variopinti che affollano le strade di Nyahururu.
Camminano lentamente portando di tanto in tanto la colla alle narici.
Più tardi, quando la trielina evapora e la colla si addensa sul fondo dei barattoli, allora, un po’ per praticità, un po’ per esibizionismo, tengono il barattolo solo con i denti, dritto in avanti, con il bordo appoggiato al dorso del naso. E camminano così, inalando l’odore che proviene dal fondo appiccicoso.
Si incontrano poi con altri ragazzini lungo la via, sui marciapiedi o negli spazi ricoperti di erba. Molti hanno in mano un sacchetto di plastica. Qualcuno ha anche un tubo di gomma, che serve per rubare la benzina dalle auto. Altri recuperano le poche gocce di carburante che sgocciolano dalle canne dei distributori. Sniffano, mettendo il viso nel sacchetto.
Per procurarsi la benzina è però opportuno attendere l’imbrunire, quando le ombre si allungano e loro diventano meno visibili. Organizzano allora in gruppo piccole spedizioni per procurare un po’ di benzina. Sono spedizioni che hanno il sapore del gioco, dell’avventura, del coraggio. Sono occasioni anche per ridere.
Dopo l’imbrunire, si avviano verso la loro dimora, la discarica n° 1, dove cercano di arrivare prima che faccia buio: rischiano di fare brutti incontri per strada, al buio. C’è un motivo se Wilkinson ha scelto quella discarica: vuole proteggere suo fratello Peter. Non vuole che gli capitino le cose orribili che sono accadute a lui. La discarica n°1 è la più isolata, ma è anche la più lontana dagli “hotel” degli ubriachi, ed una volta occultato dalle montagnole di immondizia e dal fitto buoi, si sente al sicuro. Come veterani di una lunga guerra, sanno come muoversi e trovare sempre come sistemarsi per la notte. Rinvengono i cartoni migliori e i teli di plastica che hanno nascosto. Ognuno si prepara la sua nicchia e parlano per po’, poi si addormentano.
Quando andiamo alla missione? Chiede a volte Peter rivolto al fratello. Dici la stessa cosa tutte le sere! Domani andremo.
Nel buio più fitto Wilkinson parla e racconta qualche storia. A Peter piace quando suo fratello racconta delle storie avvincenti o che fanno ridere. Lo ascolta con ammirazione e si sforza di non addormentarsi. Quando scende il silenzio e lui è ancora sveglio, allora si sposta piano piano fino a sentire il calore del corpo del fratello. E’ il momento più magico per lui, quello più atteso. E allora si addormenta tranquillo avvolto dal tepore umido della discarica, rassicurato dal quel contatto e dall’odore familiare di Wilkinson.
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