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PIETRO PAOLO RUBENS ALLA CORTE DI VINCENZO GONZAGA
Luigi la Gloria

     
 

Quando, nel 1593, Otto Van Veen fece ritorno ad Anversa, dopo aver passato alcuni anni a Roma alla corte di Alessandro Farnese, Maria Rubens, delusa dalla mediocrità dei due precedenti maestri del figlio, van Noort prima e Marten de Vos poi, colse a volo l’opportunità di poter finalmente affidare la formazione artistica di Pietro Paolo ad un pictor doctus. Van Veen aveva le giuste credenziali. Allievo del grande scrittore e biografo Lampsonius che, se non era stato un pittore all’altezza dei grandi maestri, fu certamente un profondo e dotto conoscitore dell’arte italiana e nordica, Otto van Veen, nello spirito del suo maestro, cercò di collegare la tradizione nordica indipendente con la passione del colore della pittura veneta ed italiana.
Fu proprio il Vasari che, autore del Vite de’ più eccellenti architettori, pittori e scultori italiani, che, omettendo ogni riferimento agli artisti del nord, spinse Lampsonius a scoprire la missione della sua vita: affermare il valore e la virtù dell’arte dei Paesi Bassi in contrapposizione all’arte meridionale. In effetti, il disinteresse del Vasari echeggiava il giudizio attribuito a Michelangelo da Francisco de Hollanda, secondo il quale la pittura fiamminga si occupava principalmente dell’esattezza esternaEssi dipingono stoffe e murature, l’erba verde dei prati, l’ombra degli alberi…e tutto questo. Trasformando la difesa in attacco, le biografie dei pittori nordici di Lampsonius, Effigi, contestavano l’arrogante affermazione che solo la pittura di istorie avesse valore e che la pittura di paesaggi fosse un mero riempitivo.
E Van Veen non poteva frequentare Lampsonius senza rimanere influenzato da quel costante paragonare e opporre l’arte del nord con quella del sud.
Fu così che, nel 1575, partì per Roma con una lettera di presentazione del principe vescovo di Liegi per il cardinale Cristoforo Madruzzo, che gli assicurò l’accesso agli esclusivi ambienti dell’aristocrazia umanistica romana. Dopo cinque anni di immersione nella grandezza degli antichi e nell’arte sublime di Michelangelo e Raffaello, Otto van Veen riapparve, trasformato in Vaenius, il genio: un virtuoso delle arti e delle lettere che parlava correttamente diverse lingue ed incarnava l’essenza della civiltà e della raffinatezza, senza tuttavia aver perso i contatti con le sue radici nordiche.

A metà dell’ultimo decennio del secolo XVI, per il giovane Pieter Paul Rubens non si poteva, dunque, immaginare un più illustre maestro di lui: perfetta incarnazione del pictor doctus: uomo pio e colto, artista e filosofo. E così come Lampsonius aveva spinto il suo allievo a studiare i maestri italiani, senza cedere alla banale imitazione, anche Rubens venne avviato su quella stessa strada. Tanto che la sua obbedienza a questi dettami rende difficile distinguere, di quel periodo, i tratti autenticamente rubensiani che stavano germogliando in lui. In quel momento del suo apprendistato, le lodi del suo maestro doveva riceverle più per la capacità di reprimere la sua personalità artistica piuttosto che per la sua creatività. Il Rubens emulatore risulta evidente nell’interpretazione del peccato originale, tratta da un’incisione di Marcantonio Raimondi, a sua volta ripresa da un disegno di Raffaello.

Sotto l’attenta guida di van Veen, Rubens trascorre il tempo dedicandosi anima e corpo allo studio dell’arte classica, reprimendo ogni impulso personale nella realizzazione di qual si voglia opera grafica o pittorica che realizzò in quegli anni. La grande dedizione al lavoro, il suo magnifico talento, le aspettative per un futuro di straordinario artista furono finalmente premiate quando, nel 1595, venne iscritto, come artista indipendente, alla gilda di San Luca che gli consentiva, all’età di soli ventuno anni, di tenere bottega. Il suo primo allievo fu il figlio di un argentiere dall’affascinante nome italiano: Deodate del Monte, di soli cinque anni più giovane del maestro. Benché avesse ricevuto quel riconoscimento ufficiale, Rubens non era ancora, in nessun senso, un artista compiuto, tuttavia era pronto a cogliere una grande opportunità.
Nel 1599 gli arciduchi Alberto ed Isabella si istallavano nei Paesi Bassi in qualità di coreggenti e Bruxelles ed Anversa non badarono a spese per accoglierli in modo trionfale. Lo sfarzo apparteneva alla memoria storica della città di Anversa. Si aspettava solo l’occasione di una cerimonia grandiosa perchè le corporazioni tirassero fuori dai bauli i loro più fastosi costumi e le trombe d’argento venissero lucidate a nuovo. L’entusiasmo della popolazione non era solo di carattere formale poichè gli arciduchi avevano tenuto a sottolineare a Filippo II, ormai prossimo alla morte, che non venivano come conquistatori ma come amorevoli sovrani. Più di vent’anni di aspra ed inconcludente lotta armata non erano bastati a domare le ribelli provincie protestanti del nord ed il re asburgico intendeva fare in modo che, almeno le obbedienti provincie del sud, restassero tali. Filippo II aveva trovato nel principe Alberto d’Asburgo l’uomo che incarnava la rara combinazione di devozione religiosa e capacità guerriera. Così, per la prima volta nell’arco di una generazione, i festeggiamenti furono talmente grandiosi da attirare visitatori da tutta Europa.
Tra coloro che nella tarda estate del 1599 fecero la loro comparsa nelle Fiandre, vi era il duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, cugino dell’arciduca Alberto. Vincenzo, quando era ancora erede al ducato, aveva pugnalato a morte un giovane letterato scozzese, James Crichton, che aveva commesso il fatale errore di entrare nelle grazie del duca Guglielmo.
Qualche anno più tardi, egli sarebbe stato protagonista di uno dei più singolari processi del Rinascimento: nel quale fu chiamato a dimostrare la sua virilità su una fanciulla vergine, appositamente scelta, davanti ad un comitato autorizzato dal papa, per risolvere, con prova definitiva, il contenzioso con gli ex suoceri che sostenevano che il matrimonio con la loro figliuola non era stato consumato, per colpa dello sposo, e non della sposa, come sosteneva il bizzarro duca.
Vincenzo, oltre ad essere un inguaribile megalomane, era un personaggio a dir poco singolare: le sue stravaganze erano note in tutte le corti d’Europa. Nel 1595, con considerevole dispendi di denaro, aveva raccolto un esercito-giocattolo, per combattere i mori della Sublime Porta, al fianco dell’esercito imperiale d’Ungheria. I suoi uomini indossavano uniformi nere con il suo stemma personale disegnato sul petto: una luna crescente accompagnata dal motto Sic illustrior crescam, Così crescerò in splendore. Tuttavia quello splendore si vide assai poco, giacché il duca passò gran parte della campagna diramando ordini dall’interno della sua carrozza, tappezzata di velluti. I suoi sogni di grandezza trovarono piena espressione nell’ultimo suo testamento in cui chiedeva ai suoi discendenti di conservare il suo corpo seduto in trono, con l’armatura indosso, e la mano posata sull’elsa della spada. Il rigor mortis ed il buon senso impedirono agli eredi di eseguire le ultime volontà del defunto.

Fu certamente in occasione di quella grande festa che il duca di Mantova, sempre alla ricerca di nuovi e promettenti talenti, conobbe il giovane Pietro Paolo. Vincenzo, da qualche tempo, desiderava restituire a Mantova, che aveva fama di essere la più ambiziosa patrona delle arti e dell’architettura di tutto il Nord dell’Italia, la magnificenza che aveva goduto all’epoca del nonno Federico, quando aveva, come consigliere di corte, Giulio Romano. Non passava giorno senza che il Trionfo di Cesare del Mantegna, e lo straordinario Palazzo Te di Giulio Romano, gli rammentassero gli splendori che, a suo vedere, erano stati mortificati e sacrificati dalla parsimonia di Guglielmo. Forse non si aspettava qualcosa di altrettanto grande dai fiamminghi ma Vincenzo si considerava un Asburgo ed era impossibile visitare le corti di Madrid o Vienna senza rendersi conto quanto gli imperatori apprezzassero i pittori fiamminghi. Le dense e brulicanti tavole di Bosch si erano insinuate addirittura nella camera da letto di Filippo II. Pieter Bruegel e Anthonis Mor andavano per la maggiore, a Madrid e Vienna. Fu, dunque, di fronte alle stupefacenti impennate creative nordiche che Vincenzo Gonzaga ritenne che fosse giunto il momento di aggiungere qualche pittore fiammingo alla scuderia dei suoi artisti di corte, per far compagnia a poeti come Torquato Tasso, che il duca aveva sottratto dal manicomio, o di musicisti come Monteverdi. Vincenzo cercava qualcuno che fosse in grado di tramandare ai posteri lo splendore della sua famiglia, con la magniloquenza di un Tiziano o di un Tintoretto.

Nel corso di quel viaggio gli era già stato presentato Frans Pourbus, raffinato ritrattista, che fu inviato a Mantova l’agosto seguente. Fu così che, nel maggio del 1600, il giovane Pieter Paul Rubens partì per il viaggio che avrebbe modellato tutta la sua vita futura.
Ma prima di recarsi a Mantova, come pittore di corte dei Gonzaga, per Rubens era doveroso fare tappa a Venezia, dove finalmente poter studiare Tiziano, Veronese ed Tintoretto. Mantova in piena estate era afosa, avvolta nell’umidità che il sole faceva levare dai corsi d’acqua e dalle paludi del Mincio. Era un luogo dove sciami di zanzare prolificavano negli acquitrini e negli stagni per poi avventarsi sulla popolazione, quando calava la sera, per ingozzarsi, senza distinzione di casta, di sangue patrizio e plebeo. Le febbri malariche di Mantova erano leggendarie, quasi quanto la sua arte ed i suoi cavalli, universalmente giudicati i più belli ed eleganti d’Italia.
Rubens, che amava moltissimo cavalcare, certamente apprezzò la cosiddetta Sala dei Cavalli e ancora di più dovette colpirlo la fortuna del suo ideatore. Giulio Romano era stato ingaggiato da Baldesar Castiglione, il grande codificatore della vita di corte, allora ambasciatore di Federico Gonzaga a Roma. Egli, in breve tempo, era diventato non solo il pittore favorito dal duca, ma il suo braccio destro, architetto ed impresario con il titolo di superiore delle strade e prefetto generale delle fabbriche. Aveva costruito nuovi palazzi e restaurato quelli esistenti.Nel Palazzo Ducale, aveva decorato stanze che testimoniavano non solo lo splendore del duca ma anche il suo legame con l’arte degli antichi Cesari, dato che aveva disegnato la più splendida delle sale dove era custodita la straordinaria collezione di marmi antichi dei Gonzaga. Fuori porta, aveva eretto il Palazzo Te, non la solita residenza principesca periferica, ma un verro e proprio teatro dello svago. Accanto alle sale, riservate ai piaceri del duca, ve ne erano altre dove Giulio Romano, sbrigliando la sua fantasia, aveva realizzato cose da lasciare sbalordito lo spettatore che vi entrava. Non stupisce che il creatore di tante meraviglie fosse ricompensato più che generosamente dal suo patrono.

Casa Pippi, la dimora del Romano, era un edificio così grandioso che meravigliò perfino il Vasari. L’esempio del grande successo di Giulio Romano dovette colpire non poco il giovane Pieter Paul Rubens, tant’è vero che, quando nel tempo giunse anch’egli a costruirsi una grandiosa dimora urbana, ne risultò un edificio diverso da tutti gli altri e certamente molto più grandioso di quanto potesse aspirare un artista fiammingo.
Ma nel 1600 Rubens non poteva ancora immaginare tanta gloria nel suo futuro. A Mantova, egli aveva iniziato a studiare la collezione di arte antica dei Gonzaga e fu quello l’inizio dell’enorme tesoro di immagini e motivi che l’artista andò accumulando, negli anni italiani, per un uso futuro. Nella primavera del 1601, quando Vincenzo Gonzaga si preparava a partire per l’ultima campagna contro i Turchi, Rubens decise di chiedere il permesso di coronare il suo sogno nel cassetto e recarsi a Roma. Giuntovi nel giugno 1601, senza indugio si immerse nello studio dei più emozionanti capolavori dell’antichità classica.

In Vaticano ebbe modo di vedere il famosissimo Laoconte, in eterna lotta con i serpenti, e ne fece alcuni schizzi da differenti angolature, quasi avesse già in mente di attingere a diversi particolari da usare nei suoi soggetti futuri. Da qualche tempo, il papato mostrava una certa ritrosia nel concedere accesso alla scultura pagana, nel timore che con essa si potesse contaminare l’iconografia sacra. Ma Rubens non ebbe mai difficoltà ad adattare le forme ed il pathos delle figure antiche allo scenario cristiano. Anche le collezioni private delle grandi famiglie romane, Borghese, Orsini e Cesi gli furono accessibili e si dedicò a studiarle con grande passione, accumulando infiniti modelli che gli furono molto utili nel futuro. Copiare le sculture antiche era, al tempo stesso, appassionante ed un utile esercizio per l’opera di quello studioso che sarebbe diventato.
Rubens parlava un italiano elegante e spedito, e certo non ebbe difficoltà ad inserirsi tra i giovani provenienti dalla Germania e dai Paesi Bassi, che frequentavano le biblioteche e le collezioni dei cardinali e del Vaticano. Questi giovani nordici, generalmente, non erano accolti con entusiasmo dagli alti prelati alla corte di Clemente VIII. Non Bisogna dimenticare il clima controriformista che si respirava a quel tempo a Roma: appena un anno prima Giordano Bruno era stato bruciato al rogo e non mancavano gli zelanti crociati, a caccia di eretici provenienti dal nord Europa.
In verità non tutti i fiamminghi ed i tedeschi mostravano lo stesso zelo per la causa della controriforma. Caspar Scioppius, l’ex protestante divenuto prefetto della stampa vaticana, non deludeva le aspettativa del Santo Uffizio, impegnato come era, con lo zelo del neo convertito, a mettere in guardia le autorità sulla presenza di compatrioti di incerta lealtà ed a promuovere diatribe contro gli apostati. Si dice che abbia tentato addirittura di convincere Rubens a diventare suddito del re di Spagna. Pur tuttavia, il suo impeccabile garbo e la sua grande cultura, portata con discrezione, non solo gli procurarono amicizie importanti ma gli consentirono anche di entrare, in quel mondo, dalla porta principale.

Tuttavia, fu l’arciduca Alberto, considerato un fulgido esempio di illuminata devozione, ad offrire a Rubens l’occasione di dimostrare al mondo il suo talento di pittore di storie sacre. In quanto patrono della basilica di Santa Croce di Gerusalemme, l’arciduca Alberto era responsabile del culto che costituiva una delle sette mete di pellegrinaggio della città. La basilica si faceva risalire al 320 d.C., anno in cui il primo imperatore cristiano, Costantino, aveva fatto erigere in quel luogo una chiesa, per ospitare le reliquie che sua madre, sant’Elena, aveva portato a Roma dal ritorno dalla Terra Santa. Si dice che avesse rinvenuto sul Golgota un frammento della croce, uno dei chiodi usati per la crocifissione di Cristo e una spina della corona del Redentore. Accadde che l’ambasciatore dell’arciduca, Richardot, suggersse ad Alberto, allo scopo di accrescere il suo prestigio presso il papato, di realizzare, a proprie spese, una pala d’altare nella cappella di sant’Elena. Dal momento che il fratello dell’ambasciatore era molto amico di Philip Rubens, fratello di Pieter Paul, non stupisce che il nome suggerito per realizzare l’opera fosse proprio quello di Pieter che ebbe, così, modo di mettere in pratica capacità e conoscenze che era andato accumulando. E, forse proprio perché si sforzò di inserire tutti i riferimenti e i simboli  sacri, il suo lavoro finì per assomigliare più ad un manifesto che ad una composizione. La figura di sant’Elena, pur richiamando la Santa Cecilia di Raffaello, scaturisce da una scultura che raffigurava una matrona romana.

Tuttavia quest’opera è il primo esempio nel quale Rubens dimostra di avere chiara consapevolezza dell’essenziale rapporto tra la pala d’altare e l’ambiente architettonico circostante. La croce raffigurata appare tagliata, a significare che essa si estende al di là dello spazio dipinto. Dietro sant’Elena, a sinistra, le salomoniche colonne tortili, impreziosite da un viluppo di tralci, sottolineano lo stretto rapporto tra la Città Santa del passato e la Città Santa moderna.
Intanto il duca Vincenzo, dopo le sue scaramucce contro i Turchi, era ritornato a Mantova dove, nel 1602, lo raggiunse Rubens per iniziare a lavorare al suo servizio.
La prima opera importante, realizzata l’anno successivo, fu un dipinto per la cappella maggiore nella chiesa dei Gesuiti, a Mantova, raffigurante il duca e tutta la sua famiglia, in adorazione della Trinità.

 

Rubens dispone il gruppo centrale dei due duchi, Vincenzo ed il padre Guglielmo, su di una terrazza, delimitata da una balaustra, e fiancheggiata da un’imponenti colonne, tanto alte da collegare quasi la terra al cielo. Non era molto facile creare un’atmosfera celeste intorno ai Gonzaga, così Rubens prende in prestito la convenzione, in uso nella scuola veneta, di raffigurare il Doge e la sua famiglia, in quanto committenti, al fianco dei santi e della Vergine, rifacendosi, in questo, al modello del grande ritratto del Tiziano della famiglia Vendramin.
Benchè il Concilio di Trento avesse stabilito regole precise per le raffigurazioni di visioni celesti, i veneziani erano notoriamente poco ortodossi, in fatto di dottrina. La Trinità, per esempio, si sarebbe dovuta riservare esclusivamente a santi ed apostoli. Ma Vincenzo desiderava ardentemente figurare come protettore dei Gesuiti e toccò a Rubens escogitare la soluzione.
Il grande dipinto è concepito in due parti: quella terrena, nella quale è rappresentata la famiglia Gonzaga che non si mostra propriamente in adorazione, e quella raffigurante la S.S. Trinità che appare come un elemento nettamente separato. Una sorta di quadro nel quadro.

Vincenzo Gonzaga appariva ai più come uno stravagante e vanesio personaggio, tuttavia non gli mancava il buon senso. Aveva, infatti, piena consapevolezza che Mantova si trovava tra due grandi possedimenti spagnoli, il ducato di Milano ed ilfamigliagonzaga.JPG (52628 byte) regno di Napoli, dunque gli era ben chiaro chi governasse l’Italia. Si rendeva perfettamente conto dell’importanza strategica del suo piccolo stato, nel perenne conflitto tra Spagna e Francia, e, con l’ascesa di Filippo III al trono, cominciava a temere che il suo ducato venisse considerato troppo debole o volubile per poter mantenere un’indefinita libertà di azione. Altre città-stato del Rinascimento, ultimo esempio Ferrara, erano state infatti fagocitate per molto meno.  

Di qui, la decisione di porre ai piedi del giovane Filippo III, e del suo favorito duca di Lerma, universalmente noto come il vero padrone della Spagna, un dono grandioso, che testimoniasse l’imperitura e rispettosa devozione al più potente dei principi cattolici. Questa mossa diplomatica avrebbe certamante avuto la sua efficacia.
Ma chi mandare come ambasciatore di tanta magnificenza? Perché i doni che si apprestava a mandare in Spagna erano davvero di straordinario valore. E chi meglio del suo coltissimo e raffinato pittore di corte poteva assolvere ad un incarico così importante e particolare? L’intuizione del duca che, nel giovane pittore, vi fossero qualità che ne facevano qualcosa di più che un umile servo, si rivelò per Rubens la prima vera opportunità che lo avrebbe spinto verso il radioso futuro che lo attendeva.

Il 5 Maggio del 1603 il convoglio di cavalli, carri e carrozza oltrepassò il ponte di San Giorgio, dirigendosi verso Ferrara. Dopo dieci giorni, ed un epico attraversamento degli Appennini sul passo della Futa, Rubens giunse a Firenze e da lì a Livorno, dove, dopo mille peripezie per trovare un una nave, finalmente si imbarcò per Alicante. Una settimana dopo la carovana arrivò a Madrid, dove lo attendeva l’ambasciatore di Mantova, Hannibal Iberti, che lo accolse con gelida formalità. La freddezza l’ambasciatore si giustificava con il fatto che egli nulla sapeva di quella missione. Alla mala accoglienza del diplomatico si aggiunse la cattiva notizia che la corte si era trasferita a Valladolid. Inoltre Rubens aveva speso fino all’ultimo ducato. Fortunatamente un mercante gli concesse un prestito che gli consenti di continuare il suo viaggio. Ma, una volta giunto a destinazione, apprese che il re si era spostato in una non ben precisata località, nei pressi di Burgos. A quel punto decise di attendere il ritorno di Filippo e della sua corte a Valladolid.
Ma per Pieter i guai non erano finiti: quando aprì le casse, che contenevano i preziosi dipinti, una zaffata di aria mufida, che puzzava di paglia fradicia, gli invase le narici. Un fremito di terrore lo percorse mentre sollevava le tele marcite. I dipinti parevano colpiti dalla peste, il colore se ne veniva via a brandelli e la tela era tutto un fiorire di scaglie. Poteva riuscire a salvare qualcosa dalla rovina? Rubens, che era di temperamento metodico e poco incline al panico, comprese che non tutto era perduto. Il San Girolamo di Metsys ed il ritratto del duca di Mantova, di Pourbus, erano, per fortuna, in buone condizioni. Le vittima del maltempo spagnolo furono amorevolmente rimosse da casse e cornici, ripulite dalle muffe e stese ad asciugare al sole di Castiglia. Dove era rimasto attaccato alla tela, il colore era in gran parte sbiadita; ma, in quel caso, si poteva ricorrere ad una accurata operazione di restauro. Era un lavoro lento e minuzioso che poteva richiedere dei mesi; ed egli si mise a lavoro.
Rubens, nell'intimo, intuiva che quella crisi, anziché recargli danno, poteva rafforzare la sua reputazione di artista di talento. Nel frattempo, il perfido Iberti spargeva la voce che, secondo il fiammingo, cosi lo definiva, ci sarebbero voluti almeno nove mesi per finire il lavoro. E sosteneva che il meglio che ci potesse aspettare da lui era un dipinto rustico, alla maniera nordica. Ma Rubens non si perse d’animo; sfruttò la situazione nella quale, suo malgrado, era venuto a trovarsi, mettendo a tacere l’arrogante diplomatico.
Poiché la freschezza del colore avrebbe immediatamente rivelato l’opera di restauro, ad un intenditore, Rubens decise di trasformare in virtù la schiettezza fiamminga, in contrasto con le goffe astuzie di Iberti. Se avesse lavorato con competenza e celerità, il merito del restauro gli sarebbe stato senz’altro riconosciuto. Inoltre, gli si presentava l’occasione di sostituire due tele, irrimediabilmente danneggiate, con due originali di sua produzione. Uno dei due dipinti era un Eraclito e Democrito: il filosofo cupo ed il filosofo solare, seduti ai piedi di un albero, con un mappamondo tra di loro.

 Quando la corte fece ritorno a Valladolid, fu l’ambasciatore Iberti, e non Rubens, che ne era incaricato, a presentare i doni del duca di Mantova a Filippo III, che ne fu entusiasta. Ma il giovane Pieter ebbe il suo riscatto quando mostrò i doni del suo patrono al duca di Lerma.  Dispose i dipinti più grandi in una sala ampia e quelli più piccoli, tra cui il suo Eraclito e Demostene, in un ambiente adiacente. Quando il duca entrò in quelle stanze, con la sua migliore espressione da intenditore stampata sul viso, vi rimase più di un’ora, spostandosi da un dipinto all’altro, mormorando frasi di apprezzamento. Ruben era stato così perfetto, nella sua meticolosa opera di restauro, che il duca credette di esaminare gli originali. Lerma fu letteralmente conquistato dal talento, dalla raffinatezza e dalla profondità di pensiero del pittore tanto che non poteva lasciar scappare un prodigio simile dalla più grande corte della cristianità. Scrisse, dunque, al duca Vincenzo, pregandolo di esonerare Rubens da precedenti impegni, così che l’artista potesse restare in Spagna. Il Gonzaga, da parte sua, fiutando un subitaneo rialzo delle quotazione del suo pittore, rifiutò, esortando l’artista a far ritorno quanto prima a Mantova. Poco incline a lasciar andare il nuovo artista, senza aver ricevuto nulla in cambio, il duca di Lerma si inventò un progetto, cui il Gonzaga non poteva opporre rifiuto, senza mancare di offendere l’uomo più potente di Spagna: commissionò a Rubens il proprio ritratto equestre.
Era la migliore occasione che Rubens avesse mai avuto per dimostrare il talento di artista che aveva. Tuttavia quell’incarico comportava qualche rischio, per il giovane Pieter, al quale certo non mancava l’acuto istinto politico.

Era stato il Tiziano, nel ritratto di Carlo V a cavallo, alla battaglia di Mühlberg, in cui l’imperatore figurava armato di tutto punto con la lunga lancia di cavaliere in pugno, a stabilire il modello del ritratto equestre di un principe. Il dipinto si trovava a l’Escorial e Rubens ne aveva fatto una copia, durante il suo breve soggiorno a Madrid. Il capolavoro di Tiziano gli rammentava il prototipo di tutti gli imperatori equestri: la statua di Marco Aurelio in Campidoglio. In quella scultura erano condensati tutti gli ideali imperiali: la ferma padronanza del grande cavallo voleva significare sovranità sul mondo intero, vigore marziale, compostezza filosofica. Alla formula classica, Tiziano aveva aggiunto la qualità della cavalleria cristiana, così che Carlo V, il re-imperatore in groppa alla sua cavalcatura, era diventato anche il miles christianus, il perfetto cavaliere di Cristo, in arme contro i pagani.
Poiché  le chiacchiere di corte attribuivano il reale potere al duca di Lerma, non al re Filippo III, e questo non solo nelle apparenze, Rubens doveva ben badare a non rinsaldare quelle voci con un dipinto che potesse anche solo sfiorare la lesa maestà. La soluzione adottata fu di ruotare la figura di novanta gradi, rispetto al ritratto di profilo del Tiziano, in modo da porla in posizione frontale, rispetto allo spettatore, in qualche modo simile al San martino di El Greco.

Alla fine di Novembre del 1603 Rubens terminò il ritratto. Intanto da Mantova, il duca Vincenzo seguitava, attraverso una serie di lettere sempre più pressanti, a sollecitarne di far ritorno. Il Gonzaga aveva intenzione di farlo rientrare, passando per Parigi e Fontainebleau, affinchè eseguisse alcuni ritratti di nobildonne francesi, da aggiungere alle sue collezioni. Ma Rubens rispose con altrettante lettere, garbate, ma ferme e determinate, nelle quali pregava il duca di affidare l’incarico ad altri pittori, già presenti in Francia. La tenacia, condita con un pizzico di sfacciataggine, dettero i loro frutti:  l’ordine di recarsi in Francia a ritrarre le bellezze locali non venne ripetuto, così Rubens poté imbarcarsi direttamente per l’Italia. Se nell’attraversamento del Mediterraneo egli abbia trovato tempo calmo o tempestoso non ci è dato di sapere. Certamente la traversata dovette fargli immaginare i terribili mutamenti del mare. Al suo ritorno a Mantova, e prima di lasciarla definitivamente nel dicembre 1606, dipinse, infatti, alcune opere di sublime tragicità: Ero e Leandro, l’Esercito Egiziano, sommerso dalle acque del mar Rosso ed il Naufragio di Enea, ciclo di dipinti in cui il mondo della dispe299.jpg (780129 byte)razione è fuso, con sublime maestria, con quello della speranza.

Pieter Paul Rubens si trasferì, poi, dal fratello Philpp, a Roma, dove rimase a completare i suoi studi classici Infine, dopo un breve soggiorno a Genova, tornò definitivamente ad Anversa per involarsi verso quel glorioso destino che lo condurrà sull’Olimpo dei grandi maestri.

 

Uscita nr. 22 del 20/06/2011