:: CULTURA    
 

IL GRIDO DELLA GRU
Umberto Simone

     
 

Ai versi 19-23 del primo dei due libri che gli sono stati attribuiti, cioè praticamente subito all’inizio della sua opera, dopo appena quattro rapide invocazioni agli dei come doverosa introduzione, Teognide di Megara, rivolgendosi al fanciullo amato, Cirno, proclama, quasi col trionfo dell’eureka di Archimede: “O Cirno, io voglio apporre un sigillo al mio canto, nessuno me lo potrà rubare né guastare quanto ha di buono, e tutti diranno: Sono versi di Teognide il Megarese, il suo nome è famoso fra gli uomini”. Sull’esatta natura di questo sigillo, di questo marchio di fabbrica, o, per usare il termine originale, di questa sphreghis,si sono, inutile dirlo, sprecati come al solito ettolitri d’inchiostro: secondo alcuni la firma consiste nel nome dello stesso poeta, come già avevano fatto per esempio Demodoco o Focilide, che si autonominavano sempre (“Anche questo è di Focilide”) al principio dei loro carmi, secondo altri invece nel nome del destinatario, appunto il giovane Cirno, e accanto a queste due ipotesi principali ce n’è almeno un’altra mezza dozzina oscillante fra il macchinosamente elucubrato ed il superficialmente fantasioso. Quel che è certo, comunque, è che il sigillo, di qualunque tipo sia stato, non ha affatto funzionato, dal momento che l’opera di Teognide a noi pervenuta si rivela già alla prima occhiata e persino ad un lettore sprovveduto come una silloge, un’antologia, dove è molto difficile se non impossibile discernere cosa sia genuinamente teognideo e cosa invece no.
I due libri sono di mole molto diversa, in quanto il primo consta di 1230 versi, mentre il secondo, dedicato completamente all’amore efebico, va appena dal verso 1231 al verso 1389. Il testo è scritto tutto di seguito, senza divisioni fra un canto e l’altro, e i canti stessi sono spesso visibilmente raggruppati in sequenze tematiche. Soprattutto quest’ultimo particolare fa pensare ad un florilegio gnomologico, cioè di sentenze morali, di massime, che come si presenta ora fu forse realizzato in epoca ellenistica o addirittura bizantina, incorporando anche versi che sappiamo con certezza essere, in barba al famoso “marchio”, di Mimnermo, di Solone o di Tirteo, benché sembri indubbio che il nocciolo centrale, quello intorno al quale s’è aggregato tutto tale magma sapienziale, sia proprio del nostro autore, al quale infatti già Platone attribuiva nelle sue Leggi la composizione di opere del genere, a suo avviso estremamente profonde ed estremamente utili e consigliabili per l’educazione della gioventù, informazione ulteriormente ribadita, intorno all’anno 1000, da quella specie di enciclopedia che è il famoso lessico Suda.
Il metro usato è il distico elegiaco, quello dei brani che in occasione dei simposi venivano cantati con l’accompagnamento dell’aulo, al contrario dei giambi, che invece, a quanto pare, venivano solo recitati, sia pure in maniera molto scandita (il che è più affine al loro carattere più battagliero) col sottofondo fornito da uno strumento a corde. Il simposio è una delle manifestazioni più complesse e straordinarie del mondo greco: non una semplice bisboccia fra amici, come vorrebbero farci credere i film mitologici, ma un vero e proprio rito religioso e sociale, ovvero la riunione di un’eteria tutta rigorosamente al maschile (d’altra parte per par condicio le femminucce, Saffo docet, avevano il tiaso) nella quale si realizzava, si materializzava la coesione spirituale e di classe del gruppo (verrebbe da pensare insomma, con un certo ardire, che il club londinese dell’età vittoriana e addirittura le brotherhoods delle odierne università statunitensi ne siano i degenerati eredi!) e che tuttavia a tale uniformità, in mezzo a tanto affiatamento, permetteva anche, complici il vino (in vino veritas) ed il canto, un’apertura allo sfogo personale, autobiografico, giacché giusto in virtù della salda appartenenza ad un medesimo clan e ad un’unica ideologia gli altri, gli ascoltatori, non potevano che cementarsi ulteriormente sia col cantore che fra di loro in un processo di commossa identificazione reciproca. Facciamo fatica ad immaginare quello strano clima di festosa liturgia, quando i simposiasti si passavano, obbligatoriamente da sinistra verso destra, il ramo di mirto col quale via via si trasmettevano l’invito a cantare, fra i crateri che qualche volta erano firmati da un Euphronios o da un Exekias, e portando sulle teste sempre più leggere delle corone di fiori sempre più di sghimbescio …  Ma non era assolutamente quello un momento di licenza, era un momento di confidenza, d’intimità, nel quale, sotto l’egida disinvolta di Dioniso, si riepilogavano, per così dire, i principi ideologici, il credo di base, lo statuto del circolo, il che spiega l’innesto, a prima vista per noi piuttosto bizzarro ed inaspettato, fra il simposio ed il repertorio gnomico.
Teognide visse approssimativamente nel VI secolo a.C., e secondo gli studiosi era di Megara Nisea, nella Grecia dorica sull’istmo di Corinto, e non di Megara Iblea, originario cioè della colonia siciliana della sua madrepatria, come invece riteneva Platone, sebbene in questa seconda Megara egli sia poi finito, come si evince da alcuni suoi versi, con assai scarso entusiasmo, il che è facilmente comprensibile, dal momento che lo avevano esiliato. Per quelli come lui erano brutti tempi: da un’economia agraria si stava passando ad un’economia mercantile, emergevano nuovi ceti contro il cui rapido vistoso arricchimento (la gente nova e i subiti guadagni, cita dantescamente Paratore) la vecchia e impoverita aristocrazia latifondista alla quale per l’appunto Teognide apparteneva, iincapace di comprendere, come tanti secoli dopo avrebbe fatto il principe Salina del Gattopardo, che ogni tanto bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga uguale, col suo immobilismo finanziario e il suo conservatorismo culturale non poteva non soccombere. Dopo la tirannia di Teagene ed un breve intermezzo moderato, i popolari presero il sopravvento e cacciarono gli aristocratici in esilio, a comporre e a cantare ormai solo canti di delusione, di nostalgia e di rabbia impotente nei loro simposi di sopravvissuti, e a scambiarsi sotto forma di amari proverbi gli insegnamenti loro malgrado ricevuti da una condizione decaduta e raminga, in mezzo ai quali ancora una volta echeggia la pessimistica sentenza data da Sileno al re Mida: “La cosa migliore per gli uomini è non nascere e non vedere nemmeno i raggi acuti del sole, e se poi si è già nati varcare al più presto le porte dell’Ade e giacere sepolti sotto molta terra.” 
Con un’acrimonia che non poteva non fruttargli le simpatie di Nietzsche, il quale manco a dirlo gli dedicò infatti un saggio del 1864, Dissertatio de Theognide Megarensi, il nostro poeta considera i parvenus che lo hanno strappato dal suo posto al sole, e dalle gioie riservate fino a quel momento alla sua distinta élite (l’amore dei fanciulli, i cavalli, i cani da caccia) come una sottospecie inferiore, e inferiore prima di tutto moralmente: essi hanno sostituito al codice cavalleresco, al senso dell’onore, all’omerica areté del buon tempo antico i turpi valori della contrattazione, le viscide tecniche del mercatino, il losco mondo dell’affarismo, ed egli non esita a definirli senza mezzi termini ogni volta che può “i cattivi” mentre naturalmente lui e quelli della sua orgogliosa casta sono i buoni, trasformando così il contrasto politico e sociale in una sorta di guerra manichea fra il Bene e il Male. Tale cattiveria dei presunti cattivi è innata, perché (vv.535-538) “ uno schiavo non sta mai col capo eretto, ma tiene sempre la testa storta e il collo di traverso. Come da una cipolla non nascono rose o giacinti, così da una schiava non può nascere un figlio libero” ed è anche pericolosamente contagiosa, visto che (vv.35-36) “ dai buoni il bene imparerai, ma se ti mescoli ai vili perderai anche il senno che già possiedi”, e adopera infine metodi subdoli e striscianti per insinuarsi dappertutto con la sua azione inquinante: per esempio, i cosiddetti matrimoni “misti”, le mésalliances d’alcova e di roba contro le quali Teognide, rivolgendosi come sempre a Cirno, che egli spesso chiama col solenne patronimico “figlio di Polipao” quasi si rivolgesse, nella sue affettuose aspettative, ad un futuro eroe d’una futura Iliade, tuona nei vv. 183-192: “Montoni e asini e cavalli li vogliamo purosangue, o Cirno, ed esigiamo che montino femmine di razza. Invece un nobile non si fa scrupolo di prendersi in moglie una plebea figlia di un plebeo (nel testo, anzi, letteralmente, “la cattiva figlia di un cattivo”!) purché gli porti molta dote, né una donna di nobili natali ricusa di andare sposa a un plebeo ricco: le preme solo che sia facoltoso, non che sia nobile (come sempre, letteralmente, “che sia buono”). Venerano il denaro! Il nobile sposa la figlia di un plebeo, il plebeo la figlia di un nobile, e così la ricchezza mescola la specie! Non ti stupire dunque, o figlio di Polipao, se la razza dei cittadini si offusca: si mischiano plebe e nobiltà”. Come nel titolo di un celebre film di Scola, i suoi nemici sono, per Teognide, oltre che cattivi, anche brutti e sporchi: evoca qua e là il lezzo da stalla che tuttora emanano, o le rozze pelli caprine nelle quali si infagottavano prima di arricchirsi, e li detesta a tal punto che in un passo si augura di poterne, un giorno o l’altro, suprema beatitudine, bere il sangue.
A questo punto, lo so, molti che Teognide non lo hanno finora mai letto si chiederanno se vale proprio la pena di avere a che fare con un simile energumeno reazionario e segregazionista. Eppure, il suo caso non è poi così isolato: pensiamo per esempio a Kipling - non ci deliziano forse le avventure del suo Mowgli o del suo Kim, o i suoi fantastici racconti sull’India o sull’antica Inghilterra, o le sue rudi e sonore ballate tipo Mandalay? Credo tuttavia che, se ce lo fossimo trovati seduto davanti a tavola mentre magari pontificava sulla legittimità del colonialismo e sul paternalistico “fardello dell’uomo bianco” avremmo fatto fatica a non tirargli il postprandiale bicchierino di Madera in faccia. E farò un altro esempio ancora: quand’ero intorno ai sedici anni, ho scoperto Alcyone e non la finivo più di magnificarne i versi coi miei amici i quali però a un certo punto (il ’68 con le sue conquiste ma anche con le sue idiosincrasie era già alle porte) mi hanno detto: ”Ma come, ti piace D’annunzio? Ma allora sei un fascista!” non comprendendo che a me del divino Gabriele era piuttosto La pioggia nel pineto che piaceva da matti, mentre non me ne importava un fico secco, poniamo, della sua esagitata impresa di Fiume. Con Teognide è necessaria una simile operazione di decantazione e di cernita, e se, sorvolando sulle pecche ideologiche, si bada soprattutto al vigore e alla sdegnosa ed aspra passionalità con cui si esprime, non potremo non renderci conto delle sue molte eccezionali qualità. Piano piano la sua ostinazione nel chiudere gli occhi davanti alla realtà ci sembrerà più patetica che fastidiosa, e quando bolla con malinconico furore come traditori coloro che, adattandosi ai nuovi tempi e alle nuove regole, sono, come egli crede, venuti meno alla più fondamentale virtù dei cavalieri antiqui, ovvero l’amicizia, il suo ingenuo radicalismo ci susciterà più tenerezza che derisione. Nei suoi versi brillano continuamente immagini originali e vive: la pietra di paragone grazie alla quale si possono riconoscere l’oro o l’argento, ma che non serve però per smascherare l’indole umana, oppure la povertà che soggioga anche un uomo valente “peggio che la febbre quartana”, o il suggestivo brano seguente; “Ho udito, o figlio di Polipao, la voce della gru che acutamente stride e giunge messaggera ai mortali del tempo buono per arare, e mi ha percosso il nero cuore perché altri possiede i miei fertili campi, né per me i muli tirano più l’aratro ricurvo …” (vv.1197-1202).Questo frammento, che nonostante la sua semplicità e la sua spontaneità ha degli illustri antecedenti, dal momento che il nero colore del cuore appartiene all’epica di Omero, e già ne Le opere e i giorni di Esiodo (vv.448-451) il grido annuale della gru porta il segnale della semina ed addolora quindi coloro che non posseggono buoi, ci mostra di Teognide un aspetto più umano e più simpatico: non lo vediamo più nelle vesti dell’astioso partigiano fanatico del classismo e dell’eugenetica, ma in quelle di un esule ingrigito nell’amarezza che, stagliato su uno sfondo piovoso di inizio inverno, ascolta i suoni della natura per lui oramai solo inutili e pungenti, con la finissima sensibilità tipicamente arcaica ai cambiamenti stagionali, alla quale però, già lo sappiamo, in lui non si accompagna, ahimè, un’altrettanto attenta percezione dei cambiamenti socioeconomici. In queste poche linee risuona la poesia dolente ma virile dei vinti, dei perdenti, con la quale è  davvero difficile non solidarizzare, eppure non è ancora nemmeno questo il brano più grande di Teognide. Gli accenti più alti, egli li troverà quando si sentirà messo da parte e sottovalutato persino dal suo amato Cirno, che forse con la strafottente adattabilità e la crudele sincerità della giovinezza ha iniziato a trattarlo come un ragazzino che crede ancora alle favole. Sarà allora che, in un’ultima impennata d’orgoglio, Teognide comporrà quel canto straordinario (vv.237-234) che comincia con le parole proprio intrise di volo Soi men egò pter’édoka, Io ti ho dato le ali:
“Io ti ho dato le ali per volare lieve sull’infinito mare e sulla terra intera: sarai presente a tutte le feste e a tutti i banchetti, e il tuo nome quante labbra lo diranno. Te canteranno i giovani in amore sui loro flauti dalla voce acuta - dolci armoniosi canti. E quando nei tenebrosi abissi della terra giungerai alla gemente reggia di Ade, neppure allora morirà il tuo nome e imperituro sarà in eterno amato. Cirno, tu vedrai l’Ellade e le isole, e varcherai il mare pescoso e inseminato non in sella al tuo destriero, ma guidato dai fulgidi doni delle Muse coronate di viole. E anche per gli uomini di domani, se ameranno il canto, tu sarai vivo, finché terra e sole esisteranno. Eppure io per te non valgo niente, e mi inganni di chiacchiere, come se io fossi un bambino.”
Le varie etichette politiche e filosofiche e compagnia bella prima o poi si staccano, il più solido sigillo e la più incancellabile sphreghis prima o poi scompaiono: solo la vera grande poesia dura per sempre.

 

Uscita nr. 20 del 20/04/2011