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UN MONDO DI RUGIADA
Umberto Simone

     
 

File:Sei Shonagon.jpgI giapponesi sono amanti delle cose piccole, come già intorno all’anno 1000 osservava la raffinatissima dama di corte Shei Shonagon in un passo del suo brioso diario intitolato Note sul guanciale: non c’è quindi da stupirsi se a un certo punto addirittura il tipo di componimento poetico più in voga, il tanka, benché costituito da appena cinque versi, cioè, rispettivamente, da un quinario, un settenario, un altro quinario e due settenari conclusivi, ha finito per sembrar loro ancora troppo prolisso. Così, nel XVI secolo, dopo tutta una serie di rimaneggiamenti strutturali che passarono anche attraverso una forma a catena denominata renga, persino il distico finale del tanka venne eliminato, e nacque l’haiku,consistente solo nelle diciassette sillabe, cinque più sette più cinque, dei primi tre versi superstiti. Dapprincipio, contrariamente al suo aristocratico predecessore, esso aveva un aspetto prevalentemente umoristico, però a conferirgli la serietà e la profondità che tuttora gli riconosciamo ci pensò subito il primo dei grandi maestri del genere: Matsuo Jinsichirô, in arte Bashô. Egli vide la luce nel 1644 a Ueno, nella provincia di Iga, poco lontano dall’antica capitale Kyoto, in una famiglia di samurai, nobile, ma non facoltosa, né influente. Restò ben presto orfano di padre, ma grazie alla strettissima amicizia con il figlio del signore locale poté studiare presso un letterato allora di gran fama e scoprire così la sua strada. Creatosi a poco a poco egli stesso una propria scuola, e tuttavia continuando a versare in gravi difficoltà economiche, nel 1672 si trasferì a Edo, l’odierna Tokyo, ospite di un allievo che gli offrì  una capanna molto umile ma provvista di un orticello nel quale, dopo averlo dissodato personalmente, il poeta piantò sempre con le proprie mani un banano. Questa pianta non solo divenne la sua favorita, ma gli fornì  anche il suo nome d’arte: Bashô, che infatti in giapponese significa appunto banano. Mentre la sua esistenza proseguiva quasi monastica in questa sorta di dignitosa indigenza, egli approfondiva le proprie conoscenze nel campo della filosofia Zen e la sua fama poetica si consolidava sempre più; ma il grande incendio del 1682 non risparmiò  nemmeno il suo rifugio, ed ebbe così inizio la fase più significativa della sua vita, la lunga serie di peregrinazioni o meglio di pellegrinaggi che anno dopo anno gli consentirono di visitare, a piedi, con un paio di sandali di paglia di riso, riparato da un largo cappello e vestito come la gente del popolo, praticamente tutte le località più importanti del Giappone, vedendo coi propri occhi, e non esclusivamente con quelli degli autori antichi, i templi e le bellezze naturali più e più volte celebrate dalla letteratura precedente. E proprio al termine di uno di questi viaggi egli morì, ad Osaka, circondato dalla devozione di discepoli e ammiratori ormai innumerevoli, che in ossequio alla sua volontà ne inumarono i resti presso l’incantevole lago di Biwa, sotto una pietra tuttora visibile.
 
File:MatsuoBashoChusonji.jpgIl più famoso componimento di Bashô è forse il seguente: “Antico stagno / Una rana / Rumore d’acqua” ( questa è la traduzione letterale, ma non posso fare a meno di affiancarle quella avanzata da uno studioso forse un po’ troppo disinvolto ma veramente abile per la sua essenzialità assai aderente a quella del testo originale: “Antico stagno / Una rana / Splash “). Mai un testo tanto breve ha generato commenti tanto lunghi: pare comunque chiaro come qui venga evocato il momento nel quale microcosmo e macrocosmo, istantaneo ed eterno si incontrano: l’esistenza umana è cioè identificata con il minimo brevissimo tonfo che, per appena l’esigua durata di un attimo, spezza l’immenso immobile silenzio dell’eternità. Un altro haiku di Bashô molto celebre, sulla caducità delle ambizioni terrene, ispirato dalla visita alle rovine di un antico castello, dice: “Erba estiva: / per molti guerrieri / la fine di un sogno”  ed è in un certo senso esemplare, giacché in esso si possono facilmente distinguere tutte le componenti che, malgrado la sua apparente semplicità, un haiku deve avere: la precisazione stagionale (tecnicamente parlando, kigo), l’indicazione di uno stato d’isolamento, di solitudine (sabi) qui suggerita dal fatto che unicamente alla vegetazione si accenna, come per segnalare che ci si trova in una distesa abbandonata, in una landa deserta, e poi il rivelarsi improvviso (wabi) di un nesso fra il grande e il piccolo, fra il passato e il presente, fra i fieri guerrieri catafratti e variopinti cui ci hanno abituato i film di Kurosawa e i fragili e disordinati intrichi della sterpaglia, e soprattutto il senso (aware) della transitorietà del tempo e della labilità del mondo, vissute tuttavia non tragicamente, ma con virile consapevolezza, e senza perdersi in inutili lamenti. Naturalmente accanto a queste in Bashô troviamo anche poesie più lievi, come quella nella quale, invitando un prete buddhista, si scusa in anticipo e con molto spirito per la propria povertà: “Nella mia casa / le zanzare sono piccole / è la sola comodità”, oppure l’omaggio quasi da madrigale che riserva alla bellezza e alla purezza di una sua amica ed allieva, la signora Sono: “ Sul crisantemo bianco / non si vede nemmeno / una traccia di polvere”. Talvolta con lui ci si trova in un’atmosfera quasi magica di sospensione: “Tempio di Suma - ascolto / nel bosco scuro d’ombre / un flauto che nessuno suona” o anche “Inverno desolato - / il suono del vento / nel mondo di un solo colore”.  Nomade infaticabile, nemmeno nel suo ultimo haiku, scritto praticamente sul letto di morte, ritraendo il torrido delirio della febbre,  non poté non fare riferimento alla sua incorreggibile natura di girovago: “Ammalato in viaggio / il sogno percorre / aride pianure”.
Il secondo dei grandi maestri dell’haiku, Yosa Buson (1715-1783) era un famoso pittore oltre che poeta, e ovviamente questo traspare nei suoi versi, che hanno sempre un forte impatto visivo, o se non altro sensoriale, mentre su questo punto Bashô è assai più sfumato e allusivo.
 
Anch’egli viaggiò moltissimo e il nome Yosa (quello vero era Taniguchi) lo prese appunto dall’omonima regione ricca di splendidi scenari naturali dove visse per qualche tempo presso un priore buddhista. Un suo haiku che mi piace particolarmente dice: ”Spiccando i fiori di prugno / vedo la mia mano rugosa / però che profumo sento”.Ecco una sua fresca poesia di kigo estivo: “Guadare il fiume d’estate: / felicità, con i sandali / in mano” ed eccone un’altra invece luminosa di kigo primaverile: “Pioggia di primavera / un ombrello e un mantello di paglia / se ne vanno chiacchierando”, ed eccone una terza notturna di kigo invernale: “Miglia di gelo - / sul lago / la luna è solo mia” (che tutt’e tre si potrebbero con facilità trasformare in altrettanti stilizzati finissimi disegni ad inchiostro), e vorrei concludere con quella di kigo autunnale scritta dopo essere rimasto vedovo dell’amatissima moglie, e davvero meravigliosa per il suo dolente pudore, per la sua accorata stringatezza: “Sera d’autunno: / la solitudine è più grande / dell’anno scorso.” 
Kobayashi Issa ebbe un’esistenza travagliata e avara di riconoscimenti. Nato nel 1763 da una famiglia di contadini del villaggio di Kashiwabara, fu allevato dalla nonna, essendo rimasto orfano di madre all’età di due anni, e all’età di sette si ritrovò con una matrigna che lo prese subito in antipatia, un’antipatia che si trasformò in vero e proprio odio quando la donna ebbe a sua volta un figlio. Così, nonostante le sue palesi capacità intellettuali, egli fu dapprima costretto ad abbandonare la scuola  per lavorare nella fattoria e poi, a quattordici anni, spedito da suo padre, che non ne poteva evidentemente più di quell’inferno familiare, ad arrangiarsi ad Edo. Là in compenso trovò dei buoni maestri, che gli fecero scoprire la sua vocazione per l’haiku, e soprattutto dei buoni amici, che soccorsero a più riprese la sua estrema povertà, ma solo nel 1813, dopo una penosa controversia giudiziaria durata ben dodici anni col fratellastro che, avendo evidentemente sviluppato i malefici geni materni, cercava di defraudarlo della sua parte di eredità, poté tornare a stabilirsi nella casa paterna e, in virtù delle migliorate condizioni economiche, sebbene ormai cinquantenne, prendere moglie. Le prove dolorose però per lui non erano ancora terminate: i suoi quattro figli morirono uno dopo l’altro in tenerissima età, poi restò vedovo e, risposatosi, si separò dopo soli due mesi. Infine, nel 1828, si spense all’improvviso per un ictus.
File:Kobayashi Issa-Portrait.jpg
Tutte le sue tristi esperienze, invece di inasprirlo, gli insegnarono al contrario la solidarietà, l’umana simpatia, l’amore verso gli esseri poveri e derelitti, verso le creature deboli ed indifese, non ultimi gli animali, per i quali, è stato giustamente detto, egli manifesta spesso una tenerezza francescana: non per niente compose cinquantaquattro poesie sulle lumache, oltre centocinquanta sulle zanzare e quasi duecento sulle rane!  Fra i maestri dell’haiku non è forse il più grande, ma senza dubbio è il più attraente. Qualche esempio: “Io parto / ora potete fare all’amore / mosche di casa”, oppure “Sotto gli alberi di ciliegio / non ci sono / stranieri “ o ancora “Villaggio di montagna: / il plenilunio d’autunno arriva / nella mia zuppa”, e così via, si potrebbe andare avanti per un pezzo. Non posso però accomiatarmi da questo poeta senza citare il suo ovattato, metafisico “studio” in bianco: “C’ero soltanto. / C’ero. Intorno / mi cadeva la neve” e infine il famoso sospiro sfuggitogli alla morte di Sato, la figlioletta preferita: “ Mondo di rugiada è questo, / mondo di rugiada, sì, certo, / eppure …

Masaoka Shiki, nato a Matsuyama nel 1867, è il più vicino a noi nel tempo, e dal momento che visse l’incontro del Giappone con l’Occidente non meraviglia il fatto che fosse lui pure propenso a cambiamenti rivoluzionari, anche in campo letterario. La sua indole battagliera e polemica, che fu definita “da capopopolo”, e che si rivelò già all’università, non venne certo frenata dalla tubercolosi, manifestatasi nel 1888: anzi lo stesso pseudonimo Shiki  fu da lui assunto quasi per sfida, dopo un violento episodio di emottisi, e allude a un’omonima specie di cuculo che nelle leggende cinesi continua a cantare finchè non sputa sangue. Appassionato, oltre che di haiku, anche di baseball, osò nella sua rivista definire senza mezzi termini “vomitevoli” gli haiku dei contemporanei, sterilizzatisi nel manierismo e nella fredda pedissequa imitazione dei grandi del passato, e alla fine, per colmo di sacrilegio e di iconoclastia, arrivò, in un saggio che fece scalpore e che provocò violente diatribe persino d’ordine politico, a prendersela addirittura col supremo, intoccabile e ormai quasi santificato Bashô, a sua detta troppo passivo, troppo ripiegato su se stesso e lontano mille miglia dalla concretezza della vita reale cui invece si accostava decisamente di più l’universo colorato, affollato e scapigliato di Buson. Per Shiki non esistevano autori intangibili, perché contava la poesia e non il poeta,  e per quanto concerne la composizione degli haiku ammetteva persino vocaboli stranieri o vernacolari o gergali, purché giovassero all’efficacia del testo. Fu lui inoltre a battezzare per sempre “haiku” il genere che fino ad allora si era arcaicamente chiamato “hokku” e combattè fino in fondo la sua battaglia, non solo in favore dell’arte, ma anche con la propria malattia, dalla quale nell’ultimo periodo della sua vita fu obbligato all’immobilità, finché nel 1902 non morì ad appena trentacinque anni.

File:Masaoka Shiki.jpgLogicamente anche Shiki si ispira per lo più al mondo della natura, ma si sente subito che il tono è cambiato, che l’atteggiamento e il linguaggio sono diversi, e più moderni, per esempio: “Giorno di primavera / si perde lo sguardo in un giardino / largo tre piedi” oppure “Ode alla primavera / non si sa /chi è l’autore” e ancora” Pietra / sulla pianura estiva - / sedile del mondo” e infine, in una commistione quasi alla Magritte di tuberi e d’astri “Rugiada posata / sul campo di patate, / la Via Lattea”. Qua e là comunque inevitabilmente affiora qualche bruciante dettaglio autobiografico sulla sua triste condizione di eterno malato: “Convalescenza: / stancarsi gli occhi / contemplando le rose”. E particolarmente commovente, eppure insieme gioioso, è questo suo haiku che desidero citare proprio in chiusura: “Di me scrivete / che ho amato i versi / e i cachi“. Esso ricorda molto da vicino, malgrado l’enorme distanza di spazio e di tempo, un bel frammento della poetessa greca  Prassilla di Sicione, risalente al V secolo a.C., nel quale Adone da morto, fra le cose migliori lasciate sulla terra, cita in principio di elenco il sole e la luna e subito dopo, senza soluzione di continuo, i cocomeri, le pere e le mele. Ma tornando al testo di Shiki, esso mi commuove perché testimonia una fame di vivere che  purtroppo, come sappiamo, non fu  per la sua fine prematura saziata fino in fondo, eppure in questa sorta di sbarazzino testamento sento anche vibrare vigorosa e trionfale la vitalissima convinzione che sia tutt’altro che un accostamento stridente o ad effetto  quello fra i cachi e i versi, in quanto, per chi ha la fortuna di saperla accogliere in sé, anche la poesia rappresenta un pasto sugoso, un  fresco cibo, un dolce nutrimento.

 

Uscita nr. 17 del 20/01/2011