:: CULTURA    
 

BELOVED ALEXANDRIA
Umberto Simone

     
 

Lawrence Durrell è nato nel 1912 in una zona dell’India praticamente ai confini col Tibet e della favolosa cornice della sua infanzia ha serbato sempre un ricordo mitico e pieno di nostalgia, tanto più quando, essendo stato costretto come tutti i figli dei funzionari dell’Impero Britannico, a rientrare verso gli undici anni in Inghilterra per completarvi la propria educazione, ha potuto paragonarla all’asfissiante atmosfera di quella che egli spregiativamente chiama la pudding island. Ma “l’inferno inglese” non lo imprigionò a lungo; già nel 1935, quindi nello stesso periodo in cui molti suoi coetanei, Orwell per esempio, si arruolavano in Spagna nelle Brigate Internazionali per combattere contro il franchismo, lui, com’è tipico del personaggio, andò invece a vivere a Corfù, dove, fra una nuotata e l’altra, grazie non solo alla natura e all’arte greca, ma soprattutto al greco lifestyle, si sentì finalmente di nuovo a casa. A Corfù fece un altro incontro importante, quando trovò (a sentir lui, dimenticata in un gabinetto pubblico) una copia del Tropico del Cancro di Henry Miller, al quale scrisse un’entusiastica fan letter, la prima di un lunghissimo epistolario e di una grandissima amicizia che influenzò molto sia l’uno che l’altro dal punto di vista artistico e che col tempo ne fece una specie di coppia di Dioscuri della letteratura accomunati, oltre che dall’esuberanza dello stile, da un’altrettanto esuberante e spregiudicato interesse per gli argomenti di carattere sessuale. Lo scoppio della seconda guerra mondiale però obbligò Durrell a lasciare nel 1941 Corfù per l’Egitto, e dal 1942 al 1945 egli visse ad Alessandria lavorando come insegnante e addetto stampa presso il British Information Office e vi conobbe Eve Cohen, l’ebrea alessandrina che sarebbe divenuta la sua seconda moglie e che fu il suo principale modello per la figura di Justine nell’omonimo romanzo. A guerra finita, sempre per così dire inguaribilmente malato di Mediterraneo, dimorò un paio di anni a Rodi, e poi, dal 1953 al 1956, a Cipro, dove cominciò a scrivere il primo dei quattro romanzi che lo avrebbero reso famoso e portato, nel 1960, alle soglie del premio Nobel, che solo per un soffio gli fu strappato dallo iugoslavo Ivo Andric’. In seguito alla crisi turco-cipriota partì da Cipro e si stabilì in Provenza, ed è là che, considerato ormai uno dei più importanti scrittori del suo tempo, si è spento nel 1990.
Il capolavoro di Durrell è il Quartetto d’Alessandria, opera costituita per l’appunto da quattro romanzi apparsi in successione, con enorme successo sia di critica che di pubblico, fra il 1957 e il 1960: Justine, Balthazar, Mountolive e Clea. Si tratta di un’unica storia narrata in quattro maniere diverse, struttura che Durrell afferma gli sia stata ispirata dalle teorie di Einstein: infatti i primi tre romanzi corrispondono alle dimensioni dello spazio, mentre l’ultimo, il solo che si svolga qualche anno dopo, realizzerebbe la dimensione tempo. Inoltre egli intendeva dimostrare esplicitamente come la relatività non valga solo in campo fisico, ma in qualunque altro ambito dell’esperienza umana, data la pressoché infinita molteplicità delle prospettive possibili. In realtà, tentativi simili erano già stati fatti anche senza scomodare Einstein: per esempio Henry James, che non a caso è uno dei numi tutelari di Durrell, aveva già trasformato il romanzo in una matassa di versioni accostate fra loro che semmai toccava al lettore dipanare in maniera da discernere il vero dal falso, o forse, ancor più, in maniera da rendersi conto della poliedrica e sfuggente ricchezza della realtà e su questo medesimo cammino si era mosso anche Faulkner, col suo meraviglioso The sound and the fury; ma se l’autore americano dichiarava di aver pubblicato insieme per semplice scoraggiamento, affastellandole sotto quell’unico titolo, quattro diverse stesure (esse pure con quattro diversi narratori) delle quali era egualmente scontento per la loro incompletezza e parzialità, Durrell svolge sin dall’inizio la sua operazione con lucidità, con metodo, programmaticamente, sapendo benissimo dove vuole andare a parare.
Justine comincia (è necessario dirlo?) nell’isola greca dove si è rifugiato l’io narrante, Darley, un insegnante e aspirante scrittore ingenuo e sensibile, per chiarire a se stesso la dolorosa ragnatela di avvenimenti e di sentimenti nei quali si è trovato in precedenza coinvolto appunto nella città di Alessandria. Il centro della ragnatela è una donna bruna bellissima e misteriosa, un’ebrea affetta da ninfomania e da un intellettualismo che della ninfomania, con la sua confusa eclettica voracità, è l’esatto corrispettivo spirituale, e del quale comunque non è la sola a soffrire, dato che anche tutti gli altri personaggi, chi più chi meno, ne soffrono, quasi lo respirassero nell’aria stessa della loro ammaliante e perversa città. Come incarnando il concetto sul quale si basa l’intero Quartetto, Justine è mutevole, imprevedibile, ha mille facce, e per accentuare maggiormente questo suo aspetto in molte scene appare immagine multipla riflessa negli specchi: non è certo facile vivere un rapporto con lei, anche perché il povero  Darley nutre terribili sensi di colpa sia nei confronti di Nessim, il ricco banchiere copto marito di Justine, che Darley stima e del quale è amico, sia nei confronti di Melissa, una ballerinetta e spogliarellista da nightclub greca, malata di tubercolosi, con cui pure ha intrecciato una relazione e che è, con la sua disarmante patetica semplicità, uno dei personaggi più riusciti del romanzo. A complicare ulteriormente una situazione già abbastanza intricata, il cerchio (ma sarebbe più esatto dire il quadrato) si chiude quando i “traditi” Nessim e Melissa a loro volta diventano amanti ed hanno una bambina che, alla morte di Melissa, Darley porterà con sé sull’isola del suo esilio volontario.
Che non si storca subito il naso, che non ci si lasci ingannare in partenza da questo groviglio di sentimenti scambiandolo per qualcosa di melodrammatico o sensazionalistico: un critico severo come Eugenio Montale, nella sua ammirata recensione del romanzo, usa a ragion veduta un’espressione forte come “schiavi d’amore” e puntualizza che non si tratta di un banale o vizioso ménage à quatre, ma “di alcune anime disperate che spremono la vita fino alla feccia nella vana speranza che dall’orrore scaturisca un senso.”  E mentre essi annaspano e si dibattono, intorno a loro brulica una miriade di personaggi che a certuni ha fatto citare le Mille e una Notte: il medico omosessuale Balthazar, animatore di una setta che studia la Cabala, la bionda ed enigmatica pittrice Clea, con la quale Justine ha avuto un intermezzo saffico, il repellente strozzino Capodistria, che in un volume viene assassinato e in quello dopo a sorpresa riappare perché il delitto era solo simulato, lo spione Scobie che adopera un pittoresco gergo tutto suo e che farà una bruttissima fine pestato a morte da marinai ubriachi mentre è travestito da donna, il diplomatico (francese fino al midollo) Pombal, sottaniere impenitente ma generoso, lo scrittore Pursewarden, in apparenza caustico e sicuro di sé, in realtà tanto vulnerabile da togliersi la vita, e poi il fanatico Narouz col suo labbro leporino e la sua terribile frusta, e il barbiere ruffiano Mnemijan, e il servo monocolo Hamid, e chissà quanti altri ancora …  e alcuni di loro daranno vita in questo o nei volumi successivi a digressioni stupefacenti, ad episodi collaterali godibilissimi, come il medico Amaril che si innamora pazzamente di una sconosciuta in maschera, e quando scopre che la ragazza, “la virtuosa Semira”, pur essendo per il resto bellissima è, a causa di un lupus infantile, senza naso, gliene fabbrica chirurgicamente uno nuovo di zecca, copiato ovviamente dai migliori ritratti dei musei, Nefertiti in testa. 
Ma il personaggio più importante di tutti, più importante persino degli stessi protagonisti principali, è senza dubbio la Città, nominata subito a pagina 1: Alessandria amata, beloved Alexandria! “Cinque lingue, cinque razze, una dozzina di fedi, cinque flotte che si muovono nei loro riflessi oleosi dietro la barra del porto. Ma ci sono più di cinque sessi e solo il greco demotico riesce a distinguerli.” Infiniti i dettagli sonori, che vanno dal richiamo mattutino di un muezzin al gorgoglio di un narghilè simile ad un singhiozzo di colomba, dalle urla nella notte del bey che bastona le sue mogli perché è impotente alla cantilena del venditore ambulante d’acqua, dall’elegante brusio cosmopolita e poliglotta dei caffè sparsi lungo la splendida Corniche al profondo silenzio salino fra le dune di una spiaggia dove si acquattano insieme le coppie clandestine e i voyeurs; altrettanto innumerevoli e memorabili gli effetti cromatici, che se indugiano nelle tonalità più oniriche e stregate, tipo il malva, il color perla, il verde polvere, quando si tratta di evocare un sempre magico cielo, non ignorano però né lo squallido sfolgorio dei lustrini sui corpi gracili e infiocchettati delle prostitute bambine né il nero totale di un domino al riparo del quale si cercano facili e rapide avventure e poi possono addirittura impazzire mescolandosi fra di loro nella descrizione delle feste popolari, mezze ricorrenza religiosa mezze mercato levantino, con tanto di santoni e di circoncisori pubblici all’ingrosso, oppure in certe scene di caccia o di pesca sulla palude Mareotide, minuziose e sgargianti come quelle di tema analogo fermate negli antichi però sempre attuali affreschi della tombe egizie; e non è di sicuro nemmeno trascurata la babele degli odori, dal profumo d’acqua di rose di una bottega di barbiere all’aroma penetrante di ogni sorta di spezie e al puzzo del sudore rancido e dell’urina fermentata e della miseria stratificata. Eccola, davanti ai nostri occhi, letteralmente sotto il nostro naso, l’Alessandria di Durrell: e a tutto questo materiale lussureggiante il linguaggio si adegua sinuoso, prezioso, smaltato, come aggirandosi in una spirale di poemetti in prosa: linguaggio che talvolta è stato bollato come decadente e dannunziano nel significato deteriore di entrambi i termini, ma del quale neppure il più ostinato detrattore arriverebbe mai a negare l’efficacia ritmica, il fascino quasi ipnotico, nonché l’estrema, sensoriale, quasi tattile evidenza.    
Mi sono dilungato sul primo romanzo perché gli altri ne sono in un certo senso il corollario, la revisione, o persino il capovolgimento. In Balthazar infatti, l’amico medico rende a Darley lo scartafaccio che questi gli aveva spedito dall’isola con la sua analisi dei fatti e delle loro motivazioni (cioè né più né meno il primo romanzo, Justine) accresciuto però e modificato dai propri commenti e da ulteriori particolari che lui, Balthazar, al contrario di Darley conosceva e leggendo le note del suo amico anche Darley le commenta e le manipola a sua volta, in una violazione continua della sequenza cronologica dei fatti, secondo la regola per la quale gli avvenimenti si susseguono non man mano che accadono, ma man mano che vengono capiti,  chiariti, che si trasformano in coscienza, in consapevolezza. Il ribaltamento invece cui prima accennavo si verifica nel volume seguente, Mountolive, il solo scritto in terza persona, senza l’io narrante di Darley, quasi a pretesa garanzia di una maggiore oggettività. Il personaggio nominato nel titolo è stato, all’inizio della sua carriera diplomatica, l’amante di Leila, la madre di Nessim e ha così avuto modo di conoscere sin da allora tutti gli altri, o per meglio dire, ha creduto di conoscerli, giacché, una volta tornato in Egitto come ambasciatore inglese, passo a passo scoprirà l’inganno dove sembrava esserci solo l’amicizia, e il complotto politico dove sembrava esserci solo una sensualità senza confini e senza calcoli. Nessim, infatti, temendo che della ormai imminente partenza degli inglesi dall’Egitto i musulmani approfittino per far piazza pulita delle minoranze, prima fra tutte appunto quella copta alla quale lui appartiene, particolarmente facoltosa e perciò facile esca all’avidità, si è impegnato in un massiccio contrabbando d’armi in Palestina, aiutato in questo dalla moglie, che in tale intrigo ha anzi finalmente trovato uno scopo nella vita e che, ora che è al corrente del segreto di Nessim, ha in un certo qual modo imparato ad amarlo. Così, tutte le tessere del mosaico si scombinano e si ricompongono secondo un nuovo disegno, tutte quelle che sembravano solo lancinanti storie d’amore o se non altro d’alcova assumono un risvolto politico, spionistico, poliziesco, o per meglio dire i differenti piani ancora una volta s’intersecano, si amalgamano, sfumano quasi l’uno nell’altro, senza che sia mai possibile capire con certezza dove e quando cominci la finzione e se sia poi mai giusto parlare di finzione, o, peggio ancora ahimé, di verità. In Clea, finalmente, mentre ormai infuria la guerra, Darley dalla sua isola ritorna ad Alessandria, dove ritrova, senza rancore perché anche se ormai sa tutto è guarito dalla sua passione, una Justine privata del suo fulgore di fatale dark lady, imbruttita, involgarita, inasprita, mentre Nessim, dopo la scoperta del suo complotto, è stato praticamente ridotto in miseria dal governo egiziano. Libero dai suoi antichi fantasmi, Darley avrà stavolta, con Clea appunto, un amore finalmente non distruttivo, che anzi ne completerà l’educazione non solo sentimentale ma soprattutto artistica, sicché in conclusione egli sarà pronto per scrivere il suo libro: e quale altro libro, ci viene spontaneo chiederci, se non il Quartetto stesso? Insomma, il libro di Darley in teoria inizia proprio dove in pratica il libro di Durrell termina, proprio al suo rigo finale: è con questo ennesimo sberleffo alla quarta dimensione tempo, con un’opera che prende il suo avvio giusto nell’attimo in cui è completata, che il Quartetto si accommiata da noi.
Di continuo si rinfaccia a Durrell di avere ritratto un’Alessandria “più immaginaria che reale, più colorita e torbida, (dice Fausta Cialente, peraltro se non erro alessandrina di nascita), più complicata e misteriosa di quanto lo sia mai stata.” E in effetti, pare che l’Alessandria vera sia piuttosto brutta, decisamente anonima, adesso forse persino peggiorata se, come pareva ormai imminente, è stata demolita la torre della sontuosa casa di Moharrem bey al 19 di Sharia Maamun, quella stessa torre dove Durrell visse e scrisse durante il suo soggiorno alessandrino e che appare illustrata sulla famosa copertina dell’Alexandria Quartet edito da Faber & Faber. I pellegrini della letteratura ne tornerebbero delusi, anzi, come scrive argutamente la guida Lonely Planet dell’Egitto in mio possesso, “con la stessa soddisfazione che si potrebbe avere cercando il mondo di Mary Poppins a Londra.” La vera Alessandria… ma che cosa significa, la parola vera, riferito ad un opera la cui tesi risiede nella sfaccettatura fino ai limiti estremi, fino (mi si perdoni il gioco di parole) all’inverosimile, della cosiddetta verità? E poi, da quando in qua, parlando d’arte, queste inezie contano? L’arte, quando è arte, è più reale della realtà e più naturale della natura, visto che, secondo il noto paradosso di Wilde, è la natura che imita l’arte e non viceversa, e che i campi di grano alla Van Gogh o i colli alla Modigliani non esistevano o era come se non esistessero prima che venissero dipinti. Per la folla sempre più nutrita dei suoi lettori ormai l’unica Alessandria sarà quella di Durrell, ed è probabilmente in previsione di questo che egli ha collocato, subito all’ìinizio di Justine, preceduta solo dalle epigrafi e dalla dedica, la seguente nota: ”I personaggi di questo romanzo sono tutti fittizi, narratore compreso, e non rassomigliano a nessuna persona vivente. Only the city is real… Solo la città (il corsivo è nostro) è reale.”

Al di là della comune formula di prammatica per evitare future noie legali, come non avvertire, in questa frase, una lieve, ironica sfumatura di trionfo? E sempre a proposito di queste parole, un’ultima osservazione non possiamo davvero risparmiarcela, cioè non possiamo non notare come Durrell, pur avendo rifiutato in blocco la sua pudding island, in una cosa almeno era rimasto smaccatamente,  irrimediabilmente, ineffabilmente anglosassone: nello humour.

 

Uscita nr. 10 del 20/06/2010