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Per quanto concerne la cosiddetta “settima arte” appartengo alla meditabonda generazione cresciuta a pane e cineforum, quindi i miei gusti nel campo sono piuttosto aristocratici per non dire aulici: Mizoguchi, Dreyer, Bergman, i grandi neorealisti italiani e persino pellicole del genere di quella che Paolo Villaggio ha, scherzando, definito una boiata pazzesca; tuttavia, esattamente come il capriccioso sultano che, pur possedendo un harem traboccante di beltà madreperlacee, impeccabili e raffinate fino alla punta delle laccatissime unghie, non disdegna di tanto in tanto le grazie semplici e rusticane di qualche fresca sguattera pescata nel fondo delle sue fumose cucine, ho una vera e propria passione per i film del filone “peplum”, così battezzato, quando hanno deciso di riabilitarlo, nientemeno dai severissimi e sofisticatissimi guru francesi gravitanti intorno agli spocchiosi Cahiers du Cinéma. In realtà, volendo spaccare il classico capello in quattro, con la scelta di tale termine quei signori non hanno forse dimostrato un’accuratezza filologica pari al loro indubbio acume critico, dal momento che qui di pepli non se ne vedono affatto: i fusti di turno indossano semmai dei chitoni corti, alla dorica, e le loro belle delle ridottissime tunichette che nella Grecia antica avrebbero come minimo provocato uno scandalizzato ingorgo di bighe, che nemmeno quelle “cagne sfrontate delle Spartane”, come le chiama il misogino e patriottico Euripide, si sarebbero sognate di indossare in pubblico, e perciò assolutamente inverosimili, benché meritorie non solo per le procacità ancora non siliconate che rivelavano, ma anche per avere anticipato di un buon decennio la rivoluzione di Mary Quant. Più giusto pertanto sarebbe usare il termine nostrano, leggermente sbracato, di film sandaloni … però peplum è decisamente più bello, e alle volte (come, per restare in tema, nel famoso processo di Frine) non è poi così grave se la giustizia cede alla bellezza.
Le passioni, si sa, non si spiegano, ma appunto, etimologicamente, si patiscono. Quando, magari in un noioso pomeriggio domenicale di pioggia, il mio svogliato zapping casualmentesi imbatte e ghiottamente si arresta sulla solita variopinta sfilata di gladiatori e di danzatrici, il miglioramento d’umore o addirittura lo spasso smaccato che subito provo, più che dalla qualità dello spettacolo al quale sto assistendo, in massima parte derivano forse dalla nostalgia di quella stagione della vita, fine elementari, inizio medie, nella quale vi ho assistito per la prima volta e in compagnia dei miei amici del tempo (eravamo tutti fan sfegatati del genere e prima di entrare in classe commentavamo con ammirazione e con invidia le prodezze dell’ultimo Ercole o Ursus o Maciste, dei quali pronunciavamo con sicurezza anche se storpiandoli, leggendoli cioè lettera per lettera com’erano scritti sui cartelloni, gli pseudonimi falsamente americani); ma al di là dell’indubbia ruffianeria del ricordo, in questi beneamati polpettoni ci colgo spesso un’anarchia, una fantasia, un’anarchia della fantasia che da un lato è di per sé fanciullesca, elementare e liberatoria, e dall’altro mi ispira ahimè dei richiami illustri, anche se molto azzardati, intendiamoci, molto alla lontana, e quindi da prendersi con le molle. Eccone subito uno: pressoché all’avvio della Dodicesima notte del mio amato Shakespeare, la protagonista, Viola, appena scampata ad un naufragio, chiede ad un altro superstite: “Dove siamo?” e lui le risponde: “In Illiria”. Ora, l’Illiria non è sul mare e quindi non vi si può di sicuro naufragare, come peraltro non si può salpare dall’altrettanto per nulla costiera Boemia, il che invece sempre il Nostro, imperturbabile, fa fare ai suoi Perdita e Florizel nel Racconto d’inverno. Io non credo che il Bardo fosse digiuno di geografia: lui adoperava i nomi per il loro fascino evocativo, e migliori gli parevano quelli che suggerissero tante cose ma nessuna netta, precisa, sicché non a una sua presunta ignoranza in proposito noi dobbiamo simili deliziose assurdità, ma alla sua assoluta indipendenza d’artista, svincolato persino dagli atlanti, per non parlare della Storia, più attento agli effetti che ai cavilli, da buon autore di teatro che, genio o non genio, non perde mai d’occhio il botteghino. Ebbene, in egual misura io sono assolutamente convinto che gli arbitrî madornali ed i farraginosi accavallamenti presenti nel peplum siano anch’essi da tributarsi a baldi, e ribaldi, meccanismi analoghi di marca quasi elisabettiana e non a cialtroneria o pressapochismo, e trovo dunque impagabile che in uno di questi film un personaggio che si chiama Thor come il dio scandinavo sia re addirittura dei Curdi e in un altro il protagonista venga dalla remota città di Beirat, perché evidentemente la sola Beirut non era abbastanza esotica. E altri nomi mi sembrano trovati persino con una malizia sotterranea, quasi alle spalle dello spettatore, come là dove una regina molto crudele ma soprattutto molto lussuriosa governa un popolo di amazzoni chiamate Iuias. Iuias è naturalmente il plurale anglosassone, quello casereccio sarebbe iuie: vocabolo che, nel dialetto veneziano, indicando anche in senso figurato le consorti dei maiali, non rappresenta certo un complimento.
Proseguendo sul filo semiserio del paradosso, verso la fine della sua vita Cézanne non si stancava di raffigurare, ossessivamente, sempre un identico panorama, la montagna Sainte Victoire: non dovremmo perciò dare addosso al peplum se anche in esso si assiste a qualcosa del genere, se cioè vi si notano dei topoi, delle situazioni, talvolta delle immagini, ripetute all’infinito. Ogni volta le massicce sbarre della tetra segreta cedono piegate a forza di braccia da un nerboruto ribelle, con grande sfoggio di pettorali e dorsali e bicipiti e tendini del collo tesi e denti digrignati, ma soprattutto con grande spreco di luccicori più però da olio che da sudore; di continuo è riciclato sotto nuova forma il carro dalle ruote falcate che nel circo farebbe a fettine i poveri prigionieri se in extremis non intervenissero i bravi salvatori; sono d’obbligo, nel massacro scatenato dall’ennesimo tiranno su un villaggio indifeso, quelle che i miei amici ed io, con l’ingenua crudeltà dell’infanzia, allegramente chiamavamo le scene pietose, ovvero la madre scarmigliata che viene trafitta mentre corre verso una culla o, più spesso, il frugoletto che frigna gattonando sulla mamma già uccisa; sembra dotato di mille vite il nanetto amico dei buoni che durante la rissa alla locanda sbuca improvviso (improvviso ma non inatteso!) dalla botte dov’era in agguato per rompere sulla testa di un armigero grande e grosso la solita brocca con la solita maligna risatina di trionfo; non manca mai, nel finale, tutto il popolo, monarca in testa, radunato su una scenografica scalinata, mentre pieno di riconoscenza fa ciao ciao all’eroe che parte, nobilmente solitario, verso nuovi torti da raddrizzare. C’e sempre anche almeno un balletto, con sculettamenti e garzate trasparenze tipo avanspettacolo, e quindi spesso riecheggiato, citato da Fellini con ironia e insieme con simpatia; se la sua perversità all’acqua di rose, datata anni Cinquanta, si dispiega durante un baccanale a palazzo, può essere interrotto dall’arrivo di un ambasciatore straniero, possibilmente con una testa mozza dentro uno scrigno finemente cesellato; se invece si svolge nel tempio, fra i suffumigi d’incenso e le nenie, magari giusto prima di un sacrificio (ovviamente umano), lo disturba coi suoi cavernosi vaticini una profetessa di sventura alla quale una luce bluastra illumina sinistramente dal basso la faccia scarnita. Tale ripetitività non genera comunque monotonia, ma, al contrario, risulta riposante, rassicurante e se non suscita piacevoli brividi, nemmeno induce mai, come purtroppo ora è di moda, conati di nausea.
Gli interpreti maschili di queste pellicole sono quasi intercambiabili: a parte uno, Gordon Mitchell (che non solo aveva una maschera particolare, un po’ allucinata e stravolta, ma anche, rara avis in quest’ambito, sapeva recitare e infatti ha coronato la sua carriera apparendo nel Satiricon proprio dell’appena nominato Fellini), a parte lui si tratta di simpatici e ingombranti figlioloni racimolati o nei concorsi di culturismo oltreoceano o dalle palestre della Garbatella, con il minimo di mimica facciale ed il massimo di prestanza fisica, con barba curatissima e, persino Sansone, con i capelli correttamente a spazzola come tutti i ragazzi perbene prima del Sessantotto … e se, il che accade di frequente, sono presenti attori veri, persino grandi, tipo Enrico Maria Salerno, o Sergio Fantoni, o Gianmaria Volonté, sono esclusivamente destinati al ruolo più sfaccettato e complicato del cattivo. Questa distinzione su base manichea è ancora più rigida se passiamo alle signore, per le quali una collaudata tipizzazione fisiognomica richiede che le buone siano bionde e abbiano una pelle molto bianca perché così risaltano meglio i segni finti delle finte frustate (talora talmente timide da scuotere appena le chiome, cotonate a mo’ di zucchero filato persino nelle schiave più strattonate e vilipese, ma sempre rigorosamente sciolte per suggerire innocenza e mancanza di calcolo) mentre le cattive invece sono preferite brune e con complicate acconciature tutte nodi e fermagli, perché si capisca immediatamente quanto contorte e taglienti sono e quanto meritino la brutta fine che in seguito subiscono. Una cattiva famosa era la simpatica Moira Orfei, che in una briosa intervista ha raccontato con molto humour come lei fosse talmente malvagia da dover ogni volta morire colpita da ben tre frecce perché una sola ai registi non sembrava abbastanza adeguata alla sua perfidia, la qual cosa provocava all’uscita di ogni nuovo film le afflitte rimostranze dei suoi figli ancora bambini. A me naturalmente le cattive piacevano molto di più, di solito erano oggettivamente assai più belle (Gianna Maria Canale per esempio era straordinaria) mentre le buone cadevano sempre per terra come sacchi di patate durante le fughe e bisognava tirarle su mentre facevano la lagna ed erano slavate e insipide … senza contare che d’altronde nemmeno oggi, lo confesso, degnerei di uno sguardo Lucia Mondella se seduta di fianco a lei ci fosse la Monaca di Monza con le sua aria peccaminosa. Quelle subdole imperatrici, quelle spietate dark ladies si ostinavano, è vero, a mescere sempre la stessa coppa contenente sempre lo stesso sonnifero, ma era facile perdonar loro questa piccola monomania, se poi con gli occhi furenti ridotti a fessura sibilavano alla misera schiava rivale in amore frasi sonore e sorprendentemente dotte quali questa che riporto testualmente: “Domani stesso sarai venduta a qualche lupanare della Suburra!”
Sono indimenticabili e tuttora godibilissime alcune scene madri, come le navi che passano sotto le gambe divaricate del Colosso di Rodi, nella pellicola omonima, diretta, non dimentichiamocene, da un giovane Sergio Leone, o Archimede che grazie agli specchi ustorî brucia le navi romane nel film dedicato all’assedio di Siracusa, o le terrificanti eruzioni di Pompei, o gli scatenati cataclismi di Atlantide. Anche chi considera con sufficienza il peplum non può infatti negare che da esso sono partiti sia la successiva cinematografia catastrofistica sia l’uso degli effetti speciali che ora forse hanno preso un po’ troppo la mano agli autori americani, ma che allora venivano impiegati a servizio della trama senza sostituirsi ad essa, insomma con una misura e una grazia più vicine all’immaginoso e divertito Méliès degli albori del muto che agli esagerati e pirotecnici Lucas e Spielberg, con una perizia ed una inventività che supplivano ampiamente alla povertà di mezzi sia tecnici che finanziari. Personaggi come ieri Mario Bava e oggi Carlo Rambaldi il mondo intero ce li invidia, ed è proprio dal carrozzone variegato del peplum che sono usciti. E per compagni di viaggio hanno avuto colleghi di spettacolo altrettanto eccezionali fra i quali, abbandonando il tono di scherzo e di svagata reminiscenza da me adottato finora, due almeno desidero ricordare con ammirazione e gratitudine: Vittorio Cottafavi, che, mentre dietro la cinepresa congegnava i suoi pasticciacci pseudomitologici, dietro la telecamera realizzava per la Rai di allora, una Rai che non aveva ancora paura di essere alta né colta, alcune fra le più vivide e mirabili rappresentazioni di tragedie greche che io abbia mai visto, che fortunatamente sono state registrate , e il suddetto Sergio Leone, del quale anche il peggiore fotogramma a mio avviso vale da solo di più di tutta la macelleria tenuta pomposamente aperta giorno e notte da Quentin Tarantino.
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