:: EDITORIALE  
 

PASSIONE E MORTE DI UN INNOCENTE
Luigi la Gloria

     
 

Alle 7:20 del 4 Agosto del 2009, dopo 82 lunghe ore legato ad un letto di contenzione del reparto di psichiatria dell’ospedale civile di Vallo della Lucania (Salerno), moriva il maestro più alto del mondo: Francesco Mastrogiovanni. Per molti di voi questo nome risulterà sconosciuto sebbene la terza rete della televisione pubblica, nel corso del programma “Mi manda Rai 3” del 30 Aprile del 2010, abbia divulgato una sintesi video della sua passione e della sua incredibile morte. Quelle immagini brutali ci hanno lasciato attoniti; durante quegli interminabili minuti le nostre incredule coscienze sono arrivate a pensare che ciò a cui stavano assistendo fosse il frutto della sapiente macchinazione organizzata da qualche regista del genere horror. Disgraziatamente però si trattava di un’agghiacciante realtà.
E quando le nostre menti, forzando il disgusto, sono riuscite stentatamente a metabolizzare l’orrore di quelle scene da lager nazista, ci siamo interrogati sulla natura di questa sorta di torturatori. Ci siamo chiesti a quale varietà d’uomini appartenessero, quali scellerate pulsioni ottenebrassero le loro menti, tanto da spingerli a trascendere le più elementari regole di civiltà e di carità cristiana, comportandosi come sinistri carcerieri. Eppure costoro sono dei professionisti formati ed istruiti, sottoposti alla rigida regola del diritto e del rispetto della persona umana! Perché hanno agito con tanta superficialità, incuranti delle gravi conseguenze che una prolungata contenzione, unita ad una scarsa alimentazione, potevano causare su di un paziente già provato da un internamento forzato e dalla somministrazione di psicofarmaci?

La risposta a queste domande va ricercata, senza dubbio alcuno, nell’incuria di un personale disinteressato alla propria missione, aggravata poi dalla totale disapplicazione di interi istituti, introdotti dalla riforma psichiatrica a garanzia e tutela dei diritti del malato. Sebbene costoro saranno chiamati a rispondere davanti alla giustizia delle loro azioni disumane, tra le pieghe di questa vicenda si celano responsabilità, forse ancora più gravi, che non hanno domicilio tra le mura del nosocomio dell’amena cittadina del Cilento e sulle quali sarà molto difficile fare chiarezza e ancor di più rendere giustizia. 
 
A determinare lo sciagurato ricovero è stato un ordine di trattamento sanitario obbligatorio (TSO), firmato da un’Autorità Municipale del luogo su segnalazione di alcuni vigili urbani che affermavano di aver visto Mastrogiovanni alla guida di un’utilitaria con uno sguardo assente. Ai loro occhi d’acuti indagatori del comportamento umano, Francesco è apparso come un essere smarrito in un’astrazione che avrebbe potuto pregiudicare pericolosamente la sicurezza pubblica quindi, con doverosa premura, lo hanno immediatamente segnalato all’autorità che, senza indugio alcuno, ne ordinava il ricovero. Ne scaturisce una caccia all’uomo di vaste proporzioni che interessa la Benemerita ed i Vigili Urbani inoltre, trattandosi di una località balneare, anche la Guardia Costiera. Francesco Mastrogiovanni è braccato per un’intera giornata, come un terrorista pronto a farsi esplodere nel bel mezzo di una piazza affollata. Dopo molte ore d’affannosa ricerca, le forze dell’ordine coadiuvate da una motovedetta della Marina Militare, lo rintracciano. Il malcapitato, come extremaratio, cerca rifugio nel mare ma presto, circondato e senza vie di scampo, comprende che la sua fuga non ha più speranze così, stremato ed impaurito, decide volontariamente di consegnarsi.
Ad attenderlo sulla spiaggia, insieme alle forze dell’ordine, vi è un medico che, con sorprendente rapidità, giudica Mastrogiovanni in condizioni d’eccitazione psicomotoria con comportamento eteroaggressivo e di scarsa consapevolezza della malattia, diagnosi che determina l’assoluta necessità di un ricovero obbligatorio. Senza opporre alcuna resistenza egli si lascia sedare, ammesso che fosse necessario, visto che aveva accettato di essere “curato” e, dopo aver profeticamente espresso l’opinione che non sarebbe uscito vivo da quell’ospedale, a bordo di un’ambulanza si avvia, privato di ogni diritto, verso una morte annunciata.

Questa è la breve sintesi dell’incredibile vicenda che ha portato Mastrogiovanni all’internamento forzato. Consultando poi l’intricata normativa che regola questi estremi provvedimenti, se ne deduce che la decisione per un TSO viene in genere valutata sulla base di gravità clinica e di urgenza, sempre finalizzata comunque alla tutela della salute del paziente stesso. Un provvedimento dunque molto impegnativo che si suppone venga firmato solo in casi di autentica necessità e soprattutto quando il paziente rifiuta le cure del caso.
A questo punto viene naturale chiedersi quale pericolosa patologia psichiatrica affliggesse Francesco e perchè sia stato oggetto di un così grave provvedimento. A questo proposito si rivelano quanto mai interessanti le dichiarazione del dott. Luigi Pizza che, all’epoca dei fatti, come tiene a specificare, non era responsabile del DSM (Dipartimento Salute Mentale) dell’Ospedale San Luca di Vallo della Lucania, ma si stava occupando del caso solo per questioni d’ufficio. Al cospetto della commissione del Senato che gli chiedeva sulla perfettibilità della disciplina vigente del TSO e se nello specifico, a proposito dell’ordinanza riguardante Mastrogiovanni, essa fosse stata correttamente interpretata, il dottore rispondeva che il TSO era più che giustificato, anche in considerazione del fatto che il paziente era già stato precedentemente oggetto d’altri due provvedimenti coattivi.
Verissimo, ma prima dell’ultimo fatale ricovero Mastrogiovanni non era mai stato preso in carico dal DSM né tanto meno era stato seguito con terapie specifiche per presunta diagnosi di disturbo schizzoaffettivo. Ciò che ci lascia poi ulteriormente sorpresi è che il dott. Pizza afferma che il paziente era dipendente da cannabinoidi, quando il valore del THC dosato al momento del ricovero era di 0,007 ng/ml, dato del tutto contrastante con la supposta diagnosi di tossicodipendenza. Quel valore di THC nel sangue è compatibile con uno spinello fumato il giorno prima.
Il dottor Pizza giudica il caso Mastrogiovanni sulla base di documentazioni cliniche redatte “frettolosamente” dai colleghi, dove, come è dimostrato, non viene mai fatta menzione dell’uso della contenzione. La cosa non sembra turbarlo. Continuando la lettura delle sue improbabili dichiarazioni, egli si dice profondamente dispiaciuto per il decesso di Mastrogiovanni ma  difende l’inconcepibile operato dei suoi colleghi, tenendo a sottolineare che non si tratta di una becera difesa corporativa, ma di principio di deontologia medica da cui non vogliamo assolutamente derogare. Poi, con freddo distacco, al margine di questa terribile storia di violenza, si limita a riconoscere obsoleta la struttura psichiatrica che è costata la vita a Francesco.
Restiamo attoniti. Lamenta, inoltre, che nell’enfatizzazione delle notizie locali si era arrivati a definire torturatori gli addetti alle cure del Mastrogiovanni. Rimaniamo ancora una volta travolti dallo stupore; nemmeno immagini così spietate e crudeli hanno convinto il dirigente che in quel luogo, in quelle ore si commetteva una violenza gravissima che portava alla morte un uomo. Ad onor del vero conveniamo con il Dott. Pizza che i sanitari in questione non sono dei torturatori, tuttavia è bene che si convinca che si sono comportati come tali. Ed infine il dirigente emette la sua sentenza: i medici hanno agito in maniera corretta dal punto di vista sanitario.
Sì, così ha tristemente dichiarato; peccato che abbia omesso di dire che nessuno ha consultato i parenti del paziente e che, quando questi sono venuti a conoscenza del ricovero coatto, è stato impedito loro di visitare il congiunto. Inoltre non risulta che ci siano stati accertamenti, nei tempi prescritti dai protocolli di osservazione, per chiarire se fossero presenti concomitanti quadri patologici, oltre allo stato psichiatrico d’agitazione psicomotoria; le analisi ematiche vengono richieste solo tre giorni dopo il suo internamento e sono visionate solo dopo la sua morte.
Il paziente non viene idratato sufficientemente. Non è alimentato per 4 giorni, ad esclusione di un frugale pasto concessogli appena entrato in reparto. E, come risulta dalle immagini registrate, è tenuto in contenzione per 82 ore durante le quali nessuno gli rivolge la parola, nessun medico valuta la possibilità di toglierlo dalla contenzione.
O tempora o mores.
Siamo davanti ad un caso per il quale non è mai stato eseguito un affidabile inquadramento clinico, le diagnosi che si sono susseguite durante differenti osservazioni mediche fatte sul paziente risultano discrepanti. Insomma, un guazzabuglio di congetture senza fondamento alcuno.
E’ importante sapere che la patologia superficialmente attribuitagli di disturbo schizzoaffettivo bipolare è, prendendo a prestito le parole di una nota psichiatra, una miscela esplosiva che si pone a metà strada tra le manifestazioni tipiche della schizofrenia e quelle dei disturbi bipolari. Questa malattia in letteratura è definita importante e necessita quindi di grande attenzione. Lo spazio a nostra disposizione non ci consente di approfondire questa complessa patologia che richiederebbe una lunga e circostanziata spiegazione; ci limitiamo, attenendoci alle opinioni degli studiosi, a definirla grave ed invalidante.
Ebbene ci si chiede: come poteva un soggetto così gravemente malato esercitare la professione di maestro elementare? Come poteva un pericoloso squilibrato, tossicodipendente, guidare diligentemente per tanti anni una classe di bambini? Egli ha esercitato questa delicata professione fino a qualche mese prima della sua morte e, dal suo comportamento sul lavoro, non è mai emerso alcun dato riferibile allo stato mentale diagnosticato dagli “allegri” medici di quel reparto di psichiatria; anzi ci risulta che sia stato amato dai suoi allievi, accettato e rispettato dai suoi colleghi.
Alla luce di queste innegabili verità, inevitabilmente la vicenda del maestro più alto del mondo si tinge di nero e questo disumano trattamento che gli è stato riservato ci appare improvvisamente come una sorta di condanna, inflitta ad un uomo colpevole di aver preso le distanze da un Sistema che era in contrasto con la sua visone del mondo. Non abbiamo altre spiegazioni per giustificare la facilità con la quale è stato firmato il TSO da parte dell’autorità municipale. Come spiegare l’imponente schieramento di forze che lo ha braccato per un’intera mattinata, alla stregua di un pericoloso criminale? Francesco Mastrogiovanni sapeva fin troppo bene a cosa stava andando incontro. La sua fobia per i camici e le uniformi in genere era pienamente giustificata, considerando il trattamento che gli era stato riservato ogni qual volta ne era venuto a contatto.
La fine di quest’uomo, immolato sul controaltare dell’intolleranza civile, che abbiamo visto tutti morire in uno squallido reparto di psichiatria di un’ospedale del quale i responsabili non hanno ritenuto neppure opportuno scusarsi con i congiunti della vittima, deve essere annoverata, ahinoi, tra quelle delle innumerevoli vittime innocenti di una società intollerante e violenta che contrasta duramente qualsiasi forma di diversità.

La mia turbata coscienza, al cospetto di questo incivile sistema di prevaricazioni, desidererebbe trovare conforto nella giustizia, ma un’intima sensazione è in conflitto con il mio desiderio razionale e mette in guardia il mio infantile ottimismo dalle tortuose asperità che si nascondono all’interno della macchina burocratica che condurrà nel tempo questa tristissima vicenda al suo epilogo.

 

Uscita nr. 11 del 20/07/2010