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Nell’aforisma Contro gli innovatori della lingua, Nietzsche elogia gli antichi Greci per avere, invece che alla ricchezza di vocabolario, puntato piuttosto alla sua limitazione: secondo il pensatore tedesco, tale “nobile povertà” avrebbe permesso loro di avere meno, rispetto al composito e lussureggiante parlato popolare, ma, questo poco, di averlo meglio, cosicché non si finisce mai di ammirare il loro leggero e delicato modo di riplasmare ciò che è ordinario e ciò che da gran tempo è in apparenza consunto, sia per quanto concerne le parole, sia per quanto concerne le espressioni. La prima volta che ho letto queste righe, ricordo di avere pensato innanzi tutto al famoso sonetto di Mallarmé sulla tomba di Edgar Poe, sonetto nel quale al Poeta viene riconosciuta la capacità di restituire una purezza essenziale allo sfruttatissimo linguaggio comune (donner un sens plus pur aux mots de la tribu, dice letteralmente il testo); subito dopo, però, mi è venuto in mente qualcuno al quale la frase di Nietzsche si adattava proprio a meraviglia, quasi che non dai Greci antichi fosse stata suggerita, ma esattamente da lui: il sommo tragediografo francese del Grand Siècle, Jean Racine.
Da quando, nelle pagine di Stendhal, essi sono stati a viva forza accozzati insieme, oramai è quasi di prammatica parlare anche di Shakespeare quando si parla di Racine, e neanche qui ci si potrà dunque sottrarre allo strano ma obbligatorio topos, tanto più che forse è davvero qui che esso giunge opportuno. Nel campo dell’esuberanza lessicale, non credo che il Bardo abbia rivali, e stimo che lo stesso Joyce, benché molto agguerrito, debba anch’egli, sia pure con l’onore delle armi, farsi sconsolatamente da parte. I vari studiosi, anzi i vari computer, si sono a lungo accapigliati sulla questione: e mentre il linguista danese Jespersen azzarda una cifra approssimativa di “appena” 20.000 parole, Marvin Spevack arriva a una somma di ben 29.066, contro le miserelle (si fa per dire) 8.000 del pur abbondante John Milton, quello, per intenderci, del rigoglioso Paradise Lost. È quindi a ragion veduta che, riguardo a Shakespeare, di solito si usa un’espressione, guarda caso, presa a prestito proprio da una sua commedia, Pene d’amor perdute, ovvero a great feast of languages, una grande festa dei linguaggi. Ma se adesso, da questa babelica sagra, da questo affollatissimo e variopinto Carnevale di Rio dei suoni e dei significati, noi torniamo al nostro Racine, di colpo, altro che grande festa, in una riunione molto privata ci ritroviamo: una specie di cena intima fra pochi invitati scelti con estrema cura, e che si svolge al lume smorzato, più allusivo che rivelatore, di candelabri stile Luigi XIV, e in mezzo a specchi che, numerosi come quelli di Versailles, dei visi a noi ben noti di qualche nostra vecchia conoscenza offrono, spostando di pochissimo il punto d’osservazione, immagini molto diverse, profili inediti, misteriosi, addirittura stranieri - sarà insomma come se fossimo finiti in uno di quei luoghi riservati, ovattati, aristocraticamente claustrofobici dove Racine ambienta di regola i suoi drammi, uno per tutti le cabinet superbe et solitaire nel cui guscio si svolge, in concitata e disperata sordina, la vicenda di Bérénice.
Anche riguardo al lessico raciniano ho letto tempo fa qualcosa, ma, non avendo sotto mano l’articolo in questione, non posso essere così preciso nei numeri come lo sono stato col Cigno di Stratford. Mi sembra, ma molto vagamente, di ricordare un totale aggirantesi intorno alle 2.000 voci, quantità che, pur se può apparire formidabile rispetto, poniamo, alla desertica subumana eloquenza di un concorrente tipo del Grande Fratello (il cui bagaglio verbale non ritengo superi le 150 unità, sempre, beninteso, che nel conto vengano calcolati anche i burp e i borborigmi) se riferita ad uno scrittore, per di più talmente importante, non è certo tale da impressionare. D’altronde, qui non sono in fondo necessari né articoli né computer: basta scorrere con lo sguardo, a casaccio, in una qualsiasi scena, di verso in verso, per accorgersi che dovunque in Racine ci sono sempre gli stessi termini, per esempio voeu, faiblesse, transport, courroux, sujet e il suo simile objet, e les appas, e l’èclat, e così via, e che persino le rime ritornano sempre uguali, per esempio larmes, lacrime, a parte qualche punto in cui fa coppia con charmes, cioè bellezze, di solito riecheggia o viene riecheggiato da alarmes, cioè paure. Miracolosamente, con questi pochi vocaboli, per di più quasi tutti di genere astratto, e pertanto per nulla corposi, per nulla sensoriali, Racine riesce a rigirarci come guanti. Si sa, anche nei caleidoscopi la sorgente della magia risiede in appena cinque o sei frammentini opachi, informi, banali, sufficienti tuttavia ad originare, raggruppandosi, complesse geometrie e mirabili abbinamenti di colori, e già l’istante dopo un minimo impercettibile movimento, una lievissima scossa fa franare la visione, ma solo perché essa immediatamente si ricomponga in un modo completamente differente, e ogni volta completamente originale, benché i poveri e minuscoli ingredienti di tante meraviglie, quelli non cambino mai. Ebbene, con Racine avviene pressappoco qualcosa del genere … oppure, è come se egli giocasse con dadi truccati, o meglio stregati: i dadi sono sempre quelli, ma ad ogni tiro, incredibilmente, il risultato varia, e varia all’infinito: in reiterato sberleffo alla matematica, lo smistamento degli addendi, a sorpresa, stravolge di continuo la somma. Naturalmente, come ogni prestigiatore che si rispetti, egli può avvalersi, per raggiungere tale scopo, di capaci collaboratori, ovvero, riprendendo il primo paragone, il suo caleidoscopio, oltre ai frammentini, nasconde anche degli specchietti, anzi essi non sono nemmeno nascosti, ma evidenti, scoperti, direi quasi nudi: la musicalità è quello che armonizza le geometrie, e quello che alimenta le tinte è la passione.
All’inizio di Phédre Teseo, il re di Atene, è da sei lunghi mesi scomparso, nel corso di una delle sue scorribande che purtroppo, col passar degli anni, sono diventate più erotiche che eroiche. A Trezene il suo figlio di primo letto, Ippolito, nato da un’Amazzone, manifesta all’aio Teramene il proprio intento di partire alla ricerca del padre, e siccome Teramene cerca di dissuaderlo col ricordargli che è lì casa sua, il luogo familiare dove ha trascorso i giorni più sereni, risponde con malinconia: ”Queltempo felice non c’è più. Tutto ha cambiato volto / da quando su queste rive gli Dei hanno mandato / la figlia di Minosse e di Pasifaè.” ( … depuis que sur ces bords les Dieux ont envoyé / la fille de Minos et de Pasiphaé ). Quest’ultimo verso è ritenuto unanimemente uno dei più belli dell’intera letteratura francese, perché, a parte la sua straordinaria sonorità, attua concisamente ma compiutamente la propria funzione, che è quella di fare irrompere all’improvviso, e subito, appena al rigo 36 del dramma, in un dialogo che finora poteva sembrare abbastanza normale, quasi borghese, il mondo ancestrale e ferino del mito: Fedra, la nuova sposa di Teseo, non è insomma solo la detestabile matrigna che perseguita il figliastro con ogni mezzo, ma, appunto, anche la figlia del tenebroso re di Creta che nell’Ade è diventato il giudice dei morti (i pallidi umani, com’è detto meravigliosamente in un altro punto), e di colei che, invaghitasi di un toro, si accoppiò con esso nascosta nella vacca di legno costruita apposta da Dedalo, generando così l’orrido Minotauro. Da questo momento in poi, nonostante l’impeccabile nitore da marmo ellenico del verso alessandrino (il verso più maestoso che esista, quello per antonomasia della grandeur, e pertanto il più consono ai nostri boriosetti cugini d’oltralpe, specie all’epoca del Re Sole) e malgrado l’incessante ipnotica carezzevole rima baciata, ci toccherà stare sempre all’erta, perché sempre più spesso, quando meno ce l’aspetteremo, piomberanno su noi immagini primordiali e barbare: l’ossame sparpagliato del gigante ad Epidauro, il sangue dello stesso Minotauro che cola al suolo fumando, i cani antropofaghi che divorano Piritoo in caverne senza luce, e altri mostri ancora più paurosi di questi, perché giacciono tuttora accovacciati anche dentro di noi, mai del tutto addomesticati, in attesa che l’istinto li scateni.
Come ben sanno coloro che grazie ad Euripide già conoscono la trama, rimodellata comunque da Racine con straordinaria abilità, non è odio in realtà quello che Fedra prova per Ippolito, ma un amore impossibile, che la sta consumando a morte, e che essa per vergogna ostinatamente si rifiuta di rivelare persino alla fedele nutrice Enone, ansiosa per la salute e la vita della sua padrona, preferendo invece divagare disordinatamente, con un pensiero turbato a tratti fino al delirio, e lamentandosi ora perché il fulgore del sole (il padre di sua madre!) è troppo forte, ora perché l’acconciatura dei capelli annodati le pesa troppo, ora lagnandosi dell’aria libera e fresca della foresta che le manca, e ancor più della tragica sorte che colpisce, quando si innamorano, tutte le donne della sua famiglia, dalla suddetta traviata Pasifaé ad Arianna abbandonata a Nasso: “Arianna, sorella mia, da quale amore ferita / moristi sulle rive dove ti abbandonarono! … Ariane, ma soeur, de quel amour blessée / vous mourûtes aux bords où vous fûtes laissée!” Un rapido consiglio: anche se parlate piuttosto bene il francese, qualora abbiate un amico di madrelingua, fatevelo leggere ad alta voce da lui, questo distico; dalla lamentosa lentezza della dieresi metrica sulla parola Ariane alla flebile languente rima interna fra i passati remoti, quasi trainati a fatica, mourûtes e fûtes, e con tutte quelle erre e quelle elle che sembranoliquefarsi l’una nell’altra, sentirete che roba! E al solito, senza usare nemmeno un vocabolone megagalattico! Questo della musicalità, lo ripetiamo, è un aspetto fondamentale dell’arte di Racine: egli vi annetteva una tale importanza che ad ogni nuovo lavoro istruiva personalmente la prima attrice, e ne otteneva degli effetti tanto eccezionali che l’italiano Lulli, francesizzato poi in Lully, il più grande musicista dell’epoca, esortava i suoi cantanti ad ascoltare in teatro gli attori di Racine, per imparare una buona volta a cantare…
Alla lunga le premurose sollecitazioni di Enone hanno la meglio, e allora dalle frasi restie e spezzate di prima Fedra passa finalmente a una confessione piena e tumultuosa che racconta la storia della sua passione e i suoi inutili tentativi per venirne a capo: i sacrifici eseguiti senza risultato sulle are di una Venere ostile, le manovre da ingiusta matrigna usate con Teseo affinché il figliastro sia mandato via da Atene, così da non starle almeno, cocente promemoria, sempre sotto agli occhi, e, dopo il breve ingannevole sollievo seguito a tale separazione, il proprio crollo definitivo quando Teseo la porta a Trezene, dove Ippolito ormai vive in esilio, e lei che quasi si credeva salva rivede il suo superbo nemico. Non occorre dire come questo brano davvero meraviglioso sia a giusto merito onnipresente nella antologie, alle quali dunque, anche per la sua lunghezza che non permette di citarlo integralmente, rimando gli eventuali interessati, non potendomi però trattenere, fra le tante bellezze del passo, dal segnalarne loro almeno una. Quando Fedra dice: “ Vane precauzioni! Destino crudele! /Dal mio stesso sposo condotta a Trezene, / ho rivisto il nemico che avevo allontanato, / la mia ferita troppo viva ha versato di nuovo sangue, / ormai non è più un ardore nascosto nelle mie vene, / è Venere tutt’intera aggrappata alla sua preda!” questa esaltazione come sempre tanto spoglia eppure tanto coinvolgente cela in sé un espediente tecnico molto raffinato . Qui infatti Racine aggira l’ostacolo rappresentato dall’alternanza assolutamente obbligatoria, nella tragedia classica francese, di rime cosiddette maschili e femminili, usando in chiusura di verso tre coppie di parole, rispettivamente destinée-amenée, éloigné-saigné e cachée-attachée, che pur rispettando la regola (in quanto per la presenza di una e muta finale la prima e la terza coppia sono femminili mentre invece la seconda non lo è) da un punto di vista puramente fonico sono tuttavia indistinguibili o quasi fra di loro, per la qual cosa tutto il passaggio acquista un ritmo pressoché monorimo, accanito, martellato, come una serie forsennata di colpi d’ascia, l’ascia del fato, che si abbattono a breve distanza l’uno dall’altro sempre però nel medesimo punto dolente, senza mancare il bersaglio né concedere respiro.
La falsa notizia della morte di Teseo ispirerà ad Enone, sulle prime sgomenta anch’essa per la terribile rivelazione, una pragmatica via d’uscita: ora che Fedra è vedova, cioè di nuovo libera, forse le cose possono aggiustarsi. Essa convince Fedra a chiedere ad Ippolito un colloquio privato, con la scusa della politica, del vuoto di potere venutosi a creare per il trapasso del re, colloquio che quel bravo ragazzo di Ippolito non può non concedere, benché a malincuore, e con un certo imbarazzo. Egli si impietosisce comunque subito per l’evidente confusione della matrigna, che ingenuamente attribuisce all’amore di Fedra per lo sposo appena perduto, ed ecco a questo punto lei cosa gli risponde:
“Sì, principe, io languisco, io ardo per Teseo. / Io l’amo, ma non quale lo hanno veduto gli inferi, / volubile adoratore di mille amori diversi… / ma fedele, ma fiero, e anche un poco selvatico, / bello, giovane, capace di affascinare ogni cuore, / come si dipingono i nostri Dei, o come io vedo voi. / Egli aveva il vostro aspetto, il vostro sguardo, la vostra voce, / lo stesso nobile pudore gli colorava il volto, / quando attraversò il mare verso la nostra Creta, / degno motivo dei voti delle figlie di Minosse. / Che facevate voi allora? Perché senza Ippolito / egli raccolse il fiore degli eroi della Grecia? / Perché, troppo giovane ancora, voi allora non poteste / entrare nella nave che lo portò ai nostri lidi? / Per mano vostra sarebbe perito il mostro di Creta, / malgrado tutti i meandri della sua vasta dimora. / Per risolverne l’intrico incerto, / è la vostra mano che mia sorella avrebbe armato del filo fatale. / Ma no, in questo disegno io l’avrei prevenuta, / l’amore me ne avrebbe subito ispirato l’idea. / Io, principe, proprio io, con il mio utile aiuto, / vi avrei del Labirinto insegnato i raggiri. / Quante cure avrei speso per questa bella persona! / Un filo non avrebbe rassicurato la vostra amante. / Compagna nel pericolo che dovevate affrontare, / avrei voluto io stessa camminare dinanzi a voi, / e Fedra nel Labirinto insieme a voi discesa / insieme a voi si sarebbe o ritrovata o perduta.”
È tutto nello stesso tempo straordinariamente emozionante e straordinariamente lineare. Fra parentesi, alcune delle parole da me elencate in precedenza sono presenti, mascherate dalla traduzione, anche in questo brano, per esempio, in un verso c’è objet, e in un altro poco più in giù ci sono addirittura insieme sujet e voeu … ma chi se ne accorge? e a chi gliene importa? e chi sta lì a contare le corde dello strumento, quando l’armonia che se ne sprigiona è talmente divina? Più tardi, dopo lo smarrimento di Ippolito di fronte all’inattesa dichiarazione, dopo il colpo di scena dell’improvviso ritorno di Teseo, dopo che Enone per salvare Fedra avrà accusato Ippolito di aver tentato lui la matrigna, e Teseo furibondo avrà scacciato Ippolito maledicendolo e invocando su di lui la mano giustiziera del dio Nettuno suo padre, Fedra già piena di rimorsi andrà dal marito a chiedergli di risparmiare colui che è pur sempre il sangue del suo sangue, e scoprirà così di avere una rivale, e anche più fortunata, perché Ippolito, per giustificarsi, nel corso del loro ultimo burrascoso incontro ha rivelato a Teseo di essere innamorato di Aricia, una principessa che Teseo tiene in ostaggio dopo averne sterminato l’intera famiglia. Così, come se non bastasse, l’infelice dovrà anche subire i tormenti della gelosia, tormenti che essa esprimerà in versi sempre più melodiosi, e sempre più smaglianti. e sempre più pullulanti di objet, sujet e così via.
E mentre il dramma si chiude con Enone che corre ad annegarsi perché l’amata padrona, ritenendola responsabile di tutto, la licenzia con irosa ingratitudine, e con Ippolito che muore travolto dai suoi stessi cavalli, spaventati da un mostro marino che il supplicato Nettuno con troppa fretta gli ha scatenati contro, e con Fedra che anche lei si toglie la vita avvelenandosi, non senza aver prima discolpato il figliastro innocente, noi pure chiudiamo il libro, e perplessi ci chiediamo come mai André Gide, quando gli domandarono chi fosse a suo avviso il più grande poeta francese, abbia risposto: “Ahimé, Victor Hugo” invece di rispondere: “Jean Racine” - così, di primo acchito e semplicemente, seccamente, con la stringatezza cioè che si addice a un prodigio più unico che raro, a una contraddizione in termini, a un ossimoro senza pari: insomma, ad un poeta di poche parole.
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