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Di Eroda si conosceva a stento il nome (anzi non era assodato nemmeno quello: Eroda? Erode? Eronda?) fino a quando nel 1891 il Kenyon non pubblicò un papiro del British Museum che conteneva sette mimiambi, i frammenti di un ottavo e il titolo, o appena poco più, di un nono. Comunque dell’autore, che viene citato in maniera elogiativa, fra gli altri, da Plinio il Giovane, non si sa tuttora molto: dal fatto che il terzo e il quarto dei suoi componimenti siano entrambi ambientati con abbondanza di particolari nell’isola di Kos si è dedotto che fosse quella la sua provenienza, e il periodo storico nel quale ha vissuto è sicuramente la prima metà del III secolo a. C., cioè i regni di Tolomeo II Filadelfo e, più ancora, di Tolomeo III Evergete. Questo recupero è stato senza dubbio molto prezioso, giacché, sebbene per ciò che concerne il livello artistico non siamo certamente a quote eccelse, tuttavia leggere Eroda è estremamente interessante, istruttivo e anche molto divertente, e se ne capirà quanto prima il perché.
I mimiambi sono testi di lunghezza ridotta, in media un centinaio di versi. Si chiamano così perché sono dei mimi, ossia dei componimenti di carattere imitativo sul tipo di quelli che scriveva in prosa quel Sofrone di Siracusa tanto amato e imitato nei suoi dialoghi da Platone, però composti stavolta in metro giambico, anzi, per essere più precisi, in quel particolare tipo di trimetro giambico che è il coliambo, la cui invenzione viene attribuita allo scurrile e bohémien poeta ionico Ipponatte di Efeso. Egli, per descrivere in modo acconcio la vita lercia e miserabile che conduceva (o che forse, come ora malignano alcuni scettici critici, per smania di maledettismo ante litteram, affermava soltanto di condurre) forgiò appunto questo verso, il più stonato e sgraziato possibile, visto che in esso l’alternanza di sillabe brevi e sillabe lunghe del trimetro giambico “normale” proprio nell’ultimo piede di colpo si inverte, cosicché l’inatteso cozzo fra due sillabe entrambi lunghe altera come una stecca, o come una pernacchia, la musichetta fino a quel momento aerea, giustificando ampiamente l’altro nome che viene dato a tale tipo di verso: quello di scazonte, ovvero zoppicante. Insomma è un metro congegnato appositamente per l’invettiva, e, più in generale, per la trivialità, e in tale chiave viene usato non soltanto da altri autori greci, per esempio Callimaco, ma anche latini, come Catullo e Orazio; ed Eronda, che di Ipponatte era un incondizionato ammiratore, non si serve d’altro verso che di questo. Ma prima di passare a esaminare uno per uno i vari componimenti, non si può non accennare almeno di sfuggita al fatto che si ignora se fossero destinati alla semplice lettura, come alcuni idillî di Teocrito ad essi affini, o se venissero rappresentati in pubblico, come il loro carattere di mimi richiederebbe. La controversia fra gli studiosi è ancora irrisolta: però particolarmente brillante mi sembra l’ipotesi, avanzata da qualcuno, di un unico declamatore che interpretasse da solo tutte le parti, qualcosa di molto simile al moderno cabaret, o, ancora meglio, alle straordinarie performances cui ci hanno al giorno d’oggi abituati, che so, un Dario Fo, oppure un Paolo Poli.
Nel primo mimo, La mezzana o La tentatrice, la vecchia Gillide va a trovare la giovane Metriche che, non vedendola da molto tempo, sulle prime la accoglie assai volentieri, chiamandola addirittura “mammetta”. Ma ha un secondo fine, la mammetta, e anche piuttosto losco, e ben presto viene alla luce: “Figlia mia, quanto tempo è ormai che sei vedova e sola soletta logori le lenzuola? Da quando Mandri se ne andò in Egitto sono passati dieci mesi, e non ti manda un rigo: si è dimenticato di te, ha bevuto a una nuova coppa, Là Afrodite ci sta di casa, c’è di tutto in Egitto: soldi, palestre, potere, clima buono, onori, spettacoli, filosofi, e oro, e bei ragazzi, e il tempio degli Dei fratello e sorella, un re come si deve, il Museo, vini scelti … e donne, donne tante, per Proserpina, più numerose delle stelle in cielo, e simili alle dee che un tempo si presentarono a Paride …” E il discorso prosegue sempre più insinuante, persino coadiuvato da qualche cinico proverbio, come, molti secoli dopo, avverrà nell’ineffabile eloquio della Celestina di De Rojas: “ Cambia registro, e per due o tre giorni pensala diversamente, e sta’ allegra, e spassatela con qualche altro: una nave non è sicura, se è ormeggiata a un’ancora sola …” E infine, dopo essersi accertata che nessuno origli, la brava vecchina scopre le sue carte: ci sarebbe un giovane di ottima famiglia, e che ha vinto un sacco di gare prestigiose nel pugilato, e che ha fior di quattrini, e che non farebbe male a una mosca, e che quanto a donne è ancora un suggello intatto, e che da quando ha intravisto Metriche nel corso di una processione religiosa non ha più pace e non fa che tormentare Gillide affinché lo soccorra: “Metriche, figlia mia, offri questo peccato, questo solo, alla Dea; dedicati a lei, che non ti metta gli occhi addosso la vecchiaia quando meno l’aspetti. E prenderai due piccioni con una fava: godrai, godrai oltre ogni dire, e regali ne riceverai più di quanti tu possa immaginare. Pensaci, e dammi retta … “ Ma Metriche non ci casca; “Questi discorsi da un’altra non li avrei sopportati, e dopo averla resa zoppa tanto quanto la sua canzone le avrei insegnato a considerare nemica la soglia di questa casa. Tu però, cara mia, qui non tornarci più con certe proposte … e lascia che Metriche figlia di Pitea continui a scaldare la seggiola: nessuno riderà alle spalle di Mandri.” Poi le fa versare dalla serva un bel bicchierone di vino e siccome Gillide bevendo cerca di ritornare alla carica la interrompe con asciutta decisione, facendole capire che la visita è conclusa.
Il secondo mimo, Il padrone di bordello, è un monologo, anzi un’arringa giudiziaria che Battaro, il tenutario di una casa di malaffare nominato appunto nel titolo, pronuncia contro Talete, un mercante di grano molto facoltoso e altrettanto violento e manesco, che di notte ha rapito a viva forza una delle sue ragazze. Il protagonista è un personaggio a tutto tondo, notevole fra l’altro per la turpe fierezza con la quale parla del proprio mestiere, esercitato prima di lui, come egli tiene a sottolineare, già da suo padre e da suo nonno. Particolarmente comico risulta il passo in cui quest’ultimo rappresentante della gloriosa ditta di famiglia invita Mirtila, la ragazza aggredita, a spogliarsi perché la giuria possa constatare su di lei i segni ancora evidenti dei maltrattamenti subiti: e siccome la poveretta è imbarazzata e intimidita la rassicura: “Non avere vergogna: fa’ conto di vedere, nei giudici qui presenti, dei padri, dei fratelli …” Un arguto studioso ha cercato in proposito di raffigurarsi lo sbalordimento degli onorevoli e rispettabilissimi giurati nel sentirsi così disinvoltamente apparentati a una Mirtila qualunque; io invece preferisco immaginare il piacevole diversivo offerto agli anzianotti ma arzilli membri di uno scalcinato tribunale di provincia rispetto alle solite noiosissime cause di abigeato o di spostamento di pietre di confine …L’intero brano è comunque senza dubbio lascoperta parodia del famoso processo di Frine, nel quale lo scaltro avvocato Iperide, per difendere la sua bellissima patrocinata dall’accusa di empietà, come estrema risorsa la mostrò ai giudici nuda in tutto il suo splendore, ottenendone (è il caso di dirlo?) la rapida assoluzione all’unanimità.
Nel terzo mimo, Il maestro di scuola, Metrotima, la madre di Cottalo, un ragazzotto discolo e scioperato, chiede al maestro di lui, Lamprisco, di affibbiargli sui due piedi una oltremodo energica punizione corporale, giustificando la propria richiesta con l’elenco tra il querulo e l’acrimonioso di tutte le malefatte dell’incorreggibile rampollo, ma ancor più di tutte le frustrazioni che, con un marito mezzo invalido, una nonna mezza andata, e i sacrifici inutili per quell’irresponsabile di figlio, essa è costretta a vivere senza scampo giorno dopo giorno. Particolari umili e gustosi ci illustrano qui un quotidiano tanto remoto nel tempo eppure ben comprensibile, e ancora condivisibile: la scorgiamo, quasi, la tavoletta per scrivere che la madre invano si ostina ad incerare, e che rimane invece derelitta fra la parete e il piede del letto, mentre i dadi, di cui Cottalo si avvale nella bisca fra i facchini e gli schiavi fuggiaschi suoi degni compari, vengono da lui lustrati e gelosamente conservati in borsette o reticelle; e possiamo anche facilmente immaginarcelo quando per sfuggire ai rimproveri materni si arrampica sui tetti e se ne sta lì a gambe penzoloni come una scimmia, sbriciolando fra l’altro tutte le tegole “neanche fossero biscotti” così poi quando viene inverno la povera donna deve sborsare tre mezzi oboli per ogni mattone, giacché tutto il condominio non fa che gridare all’unisono: “Queste sono prodezze di Cottalo di Metrotima!”
Il quarto mimo, Il sacrificio ad Asclepio, si svolge, com’è già si è detto, a Kos, dove al dio medico era dedicato un tempio secondo per importanza solo a quello celeberrimo di Epidauro. Due donnette, in occasione del rito, si attardano ad ammirare con commenti di strampalata ingenuità (eh, un giorno o l’altro gli uomini riusciranno a fare persino statue semoventi!) le opere d’arte in effetti presenti allora nel santuario, e per noi completamente perdute, firmate dai figli, entrambi scultori, di Prassitele, Cefisodoto e Timarco, e dal sommo pittore Apelle di Efeso, anche se il rapimento estetico non impedisce loro di strapazzare e minacciare le serve che le accompagnano. E la schiavitù ha il suo peso anche nel mimo successivo, La gelosa, ambientatonella casa di Bitinna, una donna certamente matura, forse vedova, che si mantiene come amante appunto uno schiavo, il cui ruolo di mantenuto viene ribadito dal nome, Gastrone, indicante chiaramente qualcuno di ben pasciuto, una sorta insomma di grosso animale di lusso. Bitinna sospetta di essere stata tradita con una vicina, e tutta la sua natura feroce e volgare esplode: assai male se la passerebbe il bellimbusto, già messo in ceppi e minacciato di marchi roventi sul viso, se non intercedesse in suo favore Cidilla, un’altra serva che però Bitinna ama come una figlia. Così, la punizione viene rinviata alla prossima scenata, anche perché appare evidente che Bitinna, sotto sotto, al suo ragazzo giocattolo ci tiene moltissimo.
Il sesto mimo, Le donne a colloquio intimo, è quello che ha il soggetto più scabroso, in quanto la conversazione a quattr’occhi fra le amiche Coritto e Metrò verte su un arnese di cuoio molto conteso fra donne sole o male accompagnate e il cui vistoso colore scarlatto deflagra di continuo nel discorso. L’autore di siffatto capolavoro è un calzolaio di nome Cerdone, ma non quel Cerdone con gli occhi celesti che abita vicino a Mirtalina e che non saprebbe attaccare un plettro a una lira, e nemmeno l’altro che sta vicino al casamento di Ermodoro venendo dalla piazza, e che era sì qualcuno una volta, ma adesso si è rimbambito, bensì un terzo Cerdone, piccolo e calvo, che assomiglia a un certo Prassino quanto un fico a un altro fico, e che quando si presentò coi suoi manufatti “degni della dea Atena” a casa di Coritto, di oscuri, anzi di scarlatti oggetti del desiderio ne aveva con sé addirittura due, però a Coritto non ne ha voluto vendere che uno, nonostante tutte le manovre di lei: “Che cosa non ho fatto, Metrò mia! Che moine non ho adoperato! L’ho baciato, l’ho lisciato sulla pelata, gli ho versato vino dolce, l’ho palpeggiato … tutto insomma, tranne che andarci a letto.” “Ma anche quello bisognava fare, se lo chiedeva”, sbotta l’impulsiva Metrò, e Coritto risponde: “Bisognava certo, ma non ci fu l’opportunità, perché ci stava lì tra i piedi la serva di Bitade, che per non spendere quei quattro soldi e farsi accomodare la macina usa la nostra notte e giorno, tanto che a poco a poco ce la sta riducendo in polvere.“
Il settimo mimo, il calzolaio, è da molti considerato il più bello di tutti. Anche qui il calzolaio si chiama Cerdone, ma questa volta è proprio scarpe e solo quelle che vende, scarpe alla moda, di tutti i tipi e per tutti i gusti, tanto che la lista dei vari modelli in offerta va dal verso 56 al verso 61, con una dovizia terminologica che si burla anche di traduttori molto più valenti di me; con una certa approssimazione, comunque, verrebbero menzionate “ scarpe di Sicione, scarpe d’Ambracia, lisce, pollastrine, pappagalline, canapine, pantofole di lusso, mezze scarpe, pianelle ioniche, babbucce, tacchi alti, grancholine, sandali argivi, scarlatte, alla maschietta, da passeggio.” Ma ancora più formidabile del suo inesauribile assortimento è il calzolaio in persona, alle prese con alcune clienti condotte nel suo negozio (anche perché il 20 di Taureone si sposa Ėcate, la figlia di Artacena, e quindi bisogna rinnovare il guardaroba) da un’omonima della Metrò del mimo precedente, che gli fa occultamente da intermediaria trovandoci beninteso il suo bravo tornaconto. Cerdone ha una parlantina praticamente inarrestabile: si lagna dei conciatori che si succhiano tutto il guadagno, del mestiere infame, dei tempi infausti, degli schiavi infingardi, e poi elogia ditirambicamente l’opera delle proprie mani mentre denigra acidamente quella degli altri (“Che zoccolo rognoso vi hanno attaccato al piede! È un bove che vi ha calzate!”) e se occorre fa persino il galante: “La tua voce, signora, mi solleverebbe, dischetto e tutto, in alto fino al cielo, per quanto io sia un macigno, perché la tua non è una lingua, ma un filtro di piacere. Ah, non è lontano dagli dei colui per il quale notte e giorno tu dischiudi le labbra. Qua il piedino, che ci provi la suola. Caspita, non c’è niente né da levare né da aggiungere. Tutte le cose belle vanno a pennello a chi è bella …”
Ė un vero peccato che l’ottavo componimento, Il sogno, non sia completo, perché esso non doveva avere tanto un andamento mimico, quanto piuttosto un significato allegorico, sebbene cominci in modo simile agli altri, con una donna che al mattino si sveglia e dopo i soliti rimproveri ai servi si apparta con la schiava preferita per raccontarle lo strano sogno fatto quella stessa notte. La narratrice che nel corso del sogno riesce lei sola, durante una festa di pastori, a saltare su un otre di pelle unto d’olio e a mantenervisi in equilibrio rappresenta senza dubbio Eroda stesso, vittorioso sulle difficoltà della poesia, e il vecchio che a un certo punto la minaccia con un bastone è altrettanto indubbiamente il grande modello imitato e pertanto sfidato, Ipponatte. Però il finale manca, e sul significato dell’intero brano non si possono fare che delle congetture non passibili di ulteriori approfondimenti.
In chiusura, ritorniamo alla data iniziale, 1891: dunque, quando Eroda riapparve, era in auge il verismo. Ecco perché si gridò subito al miracolo, e, incautamente, al capolavoro. Col passare del tempo, le cose si sono alquanto ridimensionate, e se, nel suo genere, Eroda resta davvero molto singolare per il proprio realismo, è tuttavia difficile parlare a suo riguardo di poesia, anche e soprattutto perché la poesia la fa principalmente la lingua, e, sebbene egli adotti locuzioni e costrutti tipicamente popolareschi, li inquina poi però di continuo con termini dotti, ricercati, artificiosi, insomma da smaccato erudito alessandrino. Leggerlo è in ogni caso, come ci illudiamo di avere dimostrato con gli esempi riportati, un grande piacere e un proficuo investimento, dato che la sua pagina, malgrado lo scorrere dei secoli, per dirla con Marziale, sapit hominem: serba cioé una calorosa, familiare fragranza di umano - e già questo, per un autore, non è certo un piccolo merito.
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