:: CULTURA | ||
LA FEBBRICOLA DEL SABATO SERA Umberto Simone |
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Per i sabati di due o tre mesi dell’anno, però, grazie al cielo, non andava così magra: erano i mesi benedetti e molto sospirati del cineforum, che per noi presunti intellettuali in erba era un vero e proprio avvenimento, culturale ed anche in parte mondano, e il cui appressarsi era sempre preceduto da una spasmodica attesa del nuovo programma, della lista cioè dei film previsti per l’anno in corso, e da un affannoso passaparola fra amici quando si sapeva che era finalmente cominciata la vendita delle tessere. Il cineforum aveva la sua sede in un posto che in dialetto (e qui mi scuso se la trascrizione non sarà per i filologi ortograficamente esatta) veniva definito abbasce ’i Cruce, ovvero giù alle Croci, e quella parola giù la dice subito lunga, perché si finiva in effetti nella più remota periferia del paese: quanto alle croci, ce n’erano ben tre sulla facciata dell’attigua chiesetta, in quanto, forse neanche occorre dirlo, le proiezioni avvenivano in una sala parrocchiale, annessa a un’opera pia o a qualcosa del genere gestito dalle suore. Il fatto stesso che io non ricordi con precisione i dettagli più “religiosi” (per esempio né l’ordine delle suore né il colore della loro veste, né persino a chi fosse dedicata la chiesa) serve, credo, già a testimoniare una qualità incontestabile dell’iniziativa: essa era assolutamente spregiudicata e praticamente laica, sia nella scelta delle pellicole, sia nel tenore dei dibattiti alla fine della proiezione. Le discussioni erano dirette, è vero, da un sacerdote, che aveva anche il compito, prima dello spettacolo, di fare una breve introduzione, ma si trattava di un pretino giovane giovane, simpatico, ricciuto, scattante, in clergyman, che sottolineava esclusivamente inquadrature, o carrellate, o primi piani, e non citava mai il catechismo oppure il Deuteronomio: insomma uno di quei preti che, verrebbe da pensare, se fossero tutti quanti di quella pasta, e così tolleranti, il povero Giordano Bruno sarebbe serenamente morto di morte naturale nel proprio letto, e ora non ce l’avrebbe mica, quell’accigliata statua, là, in Campo de’ Fiori. Un cineforum, se per di più si ripete nel tempo, diventa come una grande famiglia, anzi una tribù (eravamo circa un’ottantina di fedelissimi) e acquista entro certi limiti le caratteristiche delle vecchie riunioni nei fienili o intorno ai focolari, degli antichi filò:già in un paese, se non altro di vista, ci si conosce tutti, ma quando poi per dieci dodici sabati all’anno ci si incontra sempre nello stesso posto, e si fa tutti insieme la stessa cosa, ci si scopre quasi parenti: fratelli, se non di sangue, almeno di celluloide.In un modo spontaneo, come nascostamente lubrificato, tutto prendeva una piega tranquillamente domestica, pacificamente rituale, rassicurantemente abitudinaria: i posti, per esempio, per comune tacito accordo, diventavano ben presto fissi, come se fossero numerati, o prenotati, e ci si accomodava dunque sempre nell’identica fila, si avevano ogni volta gli stessi vicini, e si formavano scuole di pensiero o crocchi di mormoramento sempre uguali. I miei amici ed io (e nell’ultimo anno anche le nostre ragazze, che facevano tutte il primo liceo mentre noi facevamo il terzo, perché a quell’età le donne, si sa, sono alquanto spocchiosette, e i loro coetanei non li filano per niente, e cercano invece l’uomo più maturo, sic, più navigato) noi per esempio avevamo seduto immediatamente alle nostre spalle sempre lo stesso gruppo di signore, alcune delle quali conoscenti delle nostre mamme, e fra di esse due in particolare primeggiavano, con la loro personalità, relegando nell’ombra tutte le altre. La prima era la consorte di un noto professionista, molto acchittata, pettinatissima, elegante, talvolta con qualche bel gioiello, in breve il genere della gran dama, il che, accompagnato inoltre dal suo vocabolario svaporatamente salottiero e dalla sua pronuncia esotica, da settentrionale, faceva sussurrare ai maligni, sebbene essa risultasse in realtà molto simpatica e per niente sopra le righe, che fosse sotto sotto una terribile snob, e che (ma salta agli occhi che era una leggenda, una semplice battuta) per eccesso di raffinatezza la pasta e fagioli a casa sua si chiamasse pasta e faséoli, e pertanto, ahimè, proprio questo tristo e immeritato soprannome le avevano appioppato. La seconda invece era una signorina sulla sessantina, piccoletta e florida (mentre la sua compagna, la dama Pasta e Faséoli, era alta e snella), e si rese subito famosa per un suo incorreggibile vezzo: ogni volta che sullo schermo accadeva qualcosa che suscitava la sua riprovazione, emetteva nelle tenebre un sibilo che, se il motivo della riprovazione si protraeva, continuava esso pure imperterrito, come provenendo da chissà quale disturbata tana di serpenti. Incominciammo per gioco quasi ad aspettarlo al varco, quel sibilo, specie quando le situazioni diventavano promettenti, sul piano erotico per intenderci, magari con qualche accenno di nudità. Per la cronaca, il sibilo record, quello passato alla storia come il più lungo di tutti, si verificò durante la proiezione di Viva Zapata di Elia Kazan, in occasione della scena nella quale un giovane ed aitante Marlon Brando, molto baffuto alla messicana e coi pettorali al vento, nel corso della prima notte di nozze, invece di avventarsi con ardore sulla giovane sposina, la prega, brandendo un libro, di insegnargli lì nel letto sui due piedi a leggere e scrivere. Davanti ad un comportamento così poco caliente, così poco macho, l’assennata signorina mandò al diavolo tutto il suo virginale riserbo, e indignata, o delusa, sibilò - eccome se sibilò.
Abitualmente nei cineforum il dibattito successivo alla proiezione è una sorta di noiosa appendice, una specie di scotto barboso che si deve pagare per non fare la figura di quelli che, appena apparsa la parola FINE, si precipitavano come i tori della festa di San Firmino verso l’uscita, per svignarsela alla chetichella e che talvolta, sorpresi da una troppo rapida riaccensione delle luci, si spintonavano a testa bassa fra loro. in fuga vergognosa e disordinata; eppure spesso anche quel momento più pacato riservava qualche piacere. Si sentivano delle osservazioni acute e originali che talvolta modificavano o addirittura capovolgevano la nostra prima impressione del film, e, naturalmente, viceversa, si udivano delle elucubrazioni così insulse, degli spropositi così madornali, degli strafalcioni così marchiani che per noi presuntuosi e schifiltosi allievi del Classico erano una manna del cielo e rimanevano a lungo nel gergo della nostra banda come, si direbbe oggigiorno, dei tormentoni. Per il film di Fellini Le notti di Cabiria, uno spettatore colto aveva adoperato l’etichetta di “realismo decadente”, che però dalle anime semplici era stata recepita come “realismo scadente”, e perciò negli interventi successivi era tutto un realismo scadente di qua e un realismo scadente di là. C’era poi un signore che pareva stesse conducendo una guerra personale e senza esclusione di colpi contro il congiuntivo, e che non vedesse troppo di buon occhio nemmeno i verbi ausiliari: ebbene, dopo La dolce vita, sempre di Fellini, scombussolato forse da Anita Ekberg che si bagna biondissima e voluttuosa nella fontana di Trevi, si scatenò definitivamente. Una sera avevano dato un film credo di Cayatte, Mourir d’aimer, che a me non era granché piaciuto, perché era troppo dolciastro e anche troppo rozzamente manicheo, visto che tutti i buoni erano belli e con gli occhi azzurri come laghetti alpini: altri invece, dotati di un cuore più tenero o di un senso del ridicolo meno sviluppato, avevano pianto come viti tagliate, e con le palpebre ancora tutte arrossate respingevano a spada tratta qualunque critica, finché impercettibilmente dal film d’amore si passò a parlare dell’amore in generale, e in quella improvvisata e stravolta scimmiottatura del Simposio platonico si affrontarono un ventenne, che se non altro per ragioni anagrafiche aveva tutto il nostro appoggio, e un quarantenne (anzi, allora, Dio ci perdoni, avremmo addirittura detto “un vecchio”!), e il contrasto generazionale raggiunse il suo apogeo quando il più anziano, con una nota di sprezzante sufficienza nella voce, osò chiedere al più giovane: “Ma lei ha mai amato?”. Noi che eravamo quasi coetanei dell’inquisito e che per di più avevamo le nostre belle a fianco ci sentimmo chiamati tutti in causa, scoppiò la canea, e sono arcisicuro che, quando una dozzina d’anni dopo quell’indiscreto messere non fu eletto sindaco per una manciata di voti, la sua frase imprudente di quella sera ebbe un peso non indifferente nella sua mancata elezione. E tuttavia neanche allora, neanche con il dibattito, era ancora finita, perché c’era tutta la via del ritorno da fare, da abbasce ’i Cruce al mondo civile, e per strada, se il film era stato bello, si continuava a parlarne con passione, con quell’entusiasmo, con quel gioioso trasporto, con quel danzante coinvolgimento totale che solo i giovani hanno. E di pellicole meravigliose in quei cineforum ne abbiamo viste a bizzeffe: alcune, come i sunnominati film di Fellini, o come Rocco e i suoi fratelli di Visconti, quando erano passati per la distribuzione normale ce li eravamo persi, perché vietati ai minori di sedici anni, mentre noi alla loro prima uscita facevamo si e no le medie e ci interessavano solo i kolossal tipo Ben Hur …Insomma, a parte tutto il resto, se non cifosse stata quella sala parrocchiale fuori mano, e quello sgangherato proiettore che aveva dei problemi con le colonne sonore musicali e trasformò l’Adagietto della Quinta di Malher (nello struggente finale di Morte a Venezia)in una sorta di cacofonica marmellata (unica e senza dubbio vaghissima lontanissima somiglianza con gli striduli decibel di un odierno rave party), e quelle tessere d’abbonamento azzurre dove ad ogni ingresso la macchinetta dell’addetto lasciava il suo marchio a forma di stella (ah, venerabili cicatrici, gloriose come le tacche sul calcio di un Winchester!), e quel magico buio dove ogni tanto risuonava il mitico sibilo, forse quei capolavori non li avremmo mai goduti, o forse li avremmo goduti troppo tardi perché potessero in qualche modo introiettarsi in noi, e farsi nostro retaggio per sempre. Quelle febbricole del sabato sera sono state adolescenziali febbri di crescita, e le ricordo con nostalgia, con tenerezza, e con gratitudine.
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Uscita nr. 78 del 05/10/2018 |